“Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2, 8).
“Fu crocifisso per noi”. (Credo niceno-costantinopolitano).
Cosa significa questo “per noi”?
Il Prefazio della Domenica delle Palme dice: “Egli che era senza peccato accettò la passione per noi peccatori e, consegnandosi a un’ingiusta condanna portò il peso dei nostri peccati. Con la sua morte lavò le nostre colpe e con la sua risurrezione ci acquistò la salvezza”.
La morte in croce di Gesù, dunque, “lava” la nostre colpe. La Scrittura esprime questo mistero dicendo che Gesù è “vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 2, 2; 4, 10; cf. Rm 3, 25).
Abbiamo però tanti problemi a comprendere questo mistero, perché nella nostra mente – anche nella predicazione, nei libri devozionali, in una certa teologia… – continuano a girare idee che non sono cristiane[i].
L’opera espiatrice, con la quale gli uomini mirano a conciliarsi e propiziarsi la divinità, sta al centro della storia delle religioni. Quasi tutte, infatti, nascono dalla consapevolezza che l’uomo ha della propria colpa di fronte a Dio e denotano il tentativo di superare questo senso di colpa, di cancellare la colpa mediante opere che vengono presentate a Dio. “Espiazione” significa normalmente il ripristino del rapporto perduto con la divinità. Il meccanismo è noto: le cose cominciano ad andare male (ad esempio, c’è una carestia o un terremoto o una sconfitta in guerra), ci si immagina quindi che la divinità sia adirata per un qualche peccato commesso dagli uomini. C’è dunque bisogno che gli uomini compiano una qualche azione che riporti la pace.
Nel NT, invece, la situazione è inversa. Non è l’uomo che si accosta a Dio e gli porta un dono compensatore, ma è Dio che viene all’uomo per dare a lui. Per iniziativa del suo amore egli restaura il rapporto leso, giustificando l’uomo colpevole mediante la sua misericordia creatrice. La sua giustizia è grazia: è giustizia attiva, che giustifica, ossia “aggiusta” l’uomo che ha perso la sua integrità e lo rende “giusto”.
Qui ci troviamo di fronte alla svolta portata dal cristianesimo nella storia delle religioni: il NT non dice che gli uomini riappacificano Dio, che placano la sua ira – come dovremmo propriamente attenderci, perché sono essi che hanno sbagliato, non Dio. Ci dice invece che “è stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo” (2 Cor 5, 19).
Ora, ciò è qualcosa di veramente inaudito, qualcosa di nuovo, è il punto di partenza dell’esistenza cristiana e il centro della teologia neotestamentaria della croce. Dio non aspetta che i colpevoli si facciano avanti per riconciliarsi con lui, ma va loro incontro per primo e li riconcilia a sé. In questo si mostra la vera direzione del dinamismo dell’incarnazione e della croce.
Di conseguenza, nel NT la croce appare primariamente come un movimento dall’alto verso il basso, di Gesù che “essendo nella condizione di Dio… svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (cf. Fil 2, 6-8). La croce non è la prestazione propiziatrice che l’umanità offre al Dio sdegnato, bensì l’espressione di quel folle amore di Dio, che si abbandona senza riserve all’umiliazione per redimere l’uomo; è il suo modo di avvicinarsi a noi, non un modo nostro per avvicinarci a lui.
Con questa svolta nell’idea di espiazione, l’intera esistenza religiosa, nel cristianesimo, prende una nuova direzione. Se l’atto principiale della religione è l’adorazione, l’adorazione cristiana avviene in primo luogo nell’accoglienza riconoscente dell’azione salvifica di Dio. La forma essenziale del culto cristiano si chiama quindi, a ragion veduta, “eucaristia”, cioè rendimento di grazie. In questo culto non vengono portate davanti a Dio prestazioni umane, ma esso consiste piuttosto nell’accogliere, da parte dell’uomo, il dono che gli viene fatto; non glorifichiamo Dio offrendogli qualcosa che presumiamo nostro – quasi non fosse già da sempre suo! – bensì lasciando che egli ci doni ciò che è suo e riconoscendolo così come l’unico Signore. Lo adoriamo smettendo di fingere di poterci presentare a lui come interlocutori autonomi, mentre in realtà possiamo esistere soltanto in lui e a partire da lui. Il sacrificio cristiano non consiste in un dare a Dio ciò che egli non avrebbe senza di noi, bensì nel diventare completamente accoglienti nei suoi confronti e nel lasciarci totalmente prendere da lui. Lasciare che Dio agisca in noi: ecco il sacrificio cristiano.
[i] Cf. J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico (1968, 2000), Brescia 2005, pp. 271-274.