
In queste domeniche leggiamo il “discorso comunitario” di Gesù (Mt 18,1-35)[*].
Certo, l’immagine di comunità che ne viene fuori non è affatto idilliaca. C’è chi dà “scandalo”, ossia intralcia i fratelli sulla via della salvezza; ci sono fratelli che non solo peccano, ma rifiutano ostinatamente ogni richiamo… Però Gesù aggiunge anche parole che mirano a infondere grande fiducia: alla comunità è stato affidato un potere di “legare e sciogliere” che ha efficacia anche nei cieli, alla preghiera unanime della comunità è promesso un esaudimento sicuro, perché Gesù stesso è presente in mezzo a noi.
Questa è la comunità cristiana: da una parte è bisognosa di riconciliazione, attraversata da fratture e conflitti irrisolti, né più né meno che un pezzo qualsiasi di questo mondo; per un altro verso, è segno e strumento efficace di riconciliazione, è il luogo in cui è presente Cristo, il riconciliatore che vive in lei.
Non è facile stare dentro a questa ambiguità. La Chiesa non può soltanto parlare di riconciliazione: deve esserne segno vivo, ben leggibile, credibile… Ma come tenere insieme le esigenze della credibilità con quelle della misericordia? Anche oggi, a volte si rimprovera alla Chiesa troppa severità, altre volte troppa indulgenza; a volte si chiede di assolvere, altre volte di creare nuove scomuniche. Da un lato, in nome della serietà e dell’autenticità cristiana, emerge la tentazione del rigorismo, col rischio che le persone si allontanino perché il cammino risulta troppo difficile; dall’altra emerge il rischio di banalizzare il perdono, riducendolo a routine, cosicché le persone si allontanano ugualmente, perché il cammino risulta banale e irrilevante.
Che cosa fare allora? Insistere sulla bontà di Dio che perdona sempre, o sulla responsabilità dell’uomo che deve convertirsi? Rendere le cose più facili o più impegnative?
Ed ecco la domanda di Pietro a Gesù: “Signore, quante volte mio fratello peccherà contro di me e io dovrò perdonarlo?” (v. 21). Pietro qui – come altre volte – parla a nome della Chiesa. Quando c’è qualcuno che ricade spesso, fino a che punto dovrà essere tollerato nella comunità? “Fino a sette volte?”. Non sono poche, sette volte! C’è tutto il tempo di verificare la reale consistenza del pentimento. Arrivando a sette volte si riconosce realisticamente la fragilità umana; fermandosi lì si garantisce però la serietà del pentimento e dell’impegno da parte di chi è perdonato.
E invece no! “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (v. 22). È chiaro che non si tratta semplicemente di essere un po’ più elastici, di riconoscere alla fragilità umana uno spazio un po’ più grande. Si tratta di smettere di portare il conto, si tratta di non assumere quell’atteggiamento che ci fa dire: io perdono, però lui deve meritarselo, e quindi se ricade tante volte, a un certo punto sono autorizzato a non perdonare più. Questi ragionamenti sono molto umani, ma Gesù ci fa guardare la realtà con gli occhi di Dio!
Per questo, aggiunge subito la parabola del servo spietato. È la storia di un funzionario a cui il re condona un debito enorme, pari al gettito fiscale annuo di un paio di province dell’Impero. Ma lui si rifiuta di condonare ad un suo collega un debito molto più piccolo, pari a quattro mesi di salario di un operaio. Allora il re gli ritira il condono che aveva così generosamente accordato, dicendo: dovevi perdonare anche tu come io avevo perdonato a te (vv. 32-33)!
Ma perché doveva? Perché il re, che aveva avuto compassione di lui (v. 27), ha compassione anche dell’altro. Questa parola è la chiave di tutto: compassione! Significa compenetrarsi, immedesimarsi nella sofferenza dell’altro, soffrire con lui. Tu ottieni il perdono perché il re ha compassione di te, ma quando ti trovi davanti all’altro devi ricordare che il re ha compassione di lui così come ne ha avuta di te; per cui ciò che tu fai all’altro, il Signore lo ritiene come se fosse fatto a lui (cf. Mt 25,31-ss). Dunque questo re, pronto a perdonare anche un debito astronomico, alla fine non perdona chi non ha misericordia del suo fratello!
Vediamo così che la misericordia non esclude il rigore, che il perdono illimitato di Dio non toglie affatto la nostra responsabilità, ma anzi la accresce enormemente. Certo, noi non veniamo perdonati perché abbiamo perdonato, amati perché abbiamo amato; ma al contrario, possiamo e dobbiamo amare e perdonare perché siamo stati amati e perdonati.
Sia l’una cosa (ricevere il perdono di Dio), sia l’altra (dare il perdono ai fratelli), sono possibili perché il Signore ha compassione di noi, crea un vincolo di solidarietà e di amicizia tra Lui e noi, ci rende capaci di avere verso gli altri gli stessi sentimenti suoi. Così la misericordia di Dio si inserisce nel cammino sofferto degli uomini, assumendone la lentezza, i ritardi, le contraddizioni e donando una forza più grande, una vittoria più grande.
[*] Queste riflessioni sono tratte da V. Fusco, “Settanta volte sette”, in id. La casa sulla roccia. Temi spirituali di Matteo, Magnano (VC) 1994, pp. 95-108.
Rispondi