Proviamo a metterci nei panni dei discepoli. Gesù ha parlato loro per tre anni. Poi è morto ed è risorto. E per quaranta giorni continua a parlare loro. Di cosa? “Delle cose riguardanti il regno di Dio” (At 1,3). E i discepoli continuano ad equivocare, come se si trattasse di “ricostruire il regno per Israele” (v. 6). Il che i discepoli si aspettano è un regno terreno: autonomia politica, indipendenza economica, leggi sante, tribunali equi, benessere… Tutte cose buone e giuste! Ma tutte cose che sulla terra non si realizzano mai, perché il “regno per Israele” – come lo chiamano i discepoli – cioè un regno degli uomini, porta sempre la tara dell’egoismo umano.
Siamo dunque condannati all’infelicità? No di certo! Siamo chiamati ad allargare gli orizzonti della nostra speranza. San Paolo ci dice che il contenuto della nostra speranza è duplice (Ef 1,18-19): “il tesoro di gloria racchiuso nell’eredità di Dio tra i santi” – cioè il Paradiso – e “la straordinaria grandezza della sua potenza” a nostro vantaggio. Noi non siamo fatti semplicemente per il benessere terreno: siamo fatti per il cielo! E Gesù ascende al cielo “per darci la serena fiducia che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria” (Prefazio).
Ci pensiamo qualche volta che siamo creati per la gloria? Oppure i nostri desideri si esauriscono nel comfort e nel divertimento – come quelli dei maiali che non guardano il cielo e si accontentano delle ghiande?
C’è bisogno che siano “illuminati gli occhi del nostro cuore” (Ef 1,18), perché il comfort si vede e si sente, ma la gloria dei santi quaggiù né si vede né si sente. E noi viviamo qui, in questo mondo in cui domina l’egoismo, in cui troneggia l’accusatore, in questo tempo di pandemia e di futura e certa crisi economica…
In realtà, fin dal tempo del primo annuncio del Vangelo, “il mistero dell’iniquità è in atto” (2Ts 2,7), ma è in atto anche la potenza vittoriosa di Dio. E noi siamo nel mezzo. Dobbiamo scegliere – come dice sant’Ignazio di Loyola – sotto quale bandiera schierarci. È una combattimento, ma Cristo ha già vinto “quando Dio lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al disopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione” (Ef 1,20-s).
Bisogna capire il linguaggio simbolico dell’evento dell’Ascensione (At 1,9-10) essere elevato in alto significa ricevere il dominio; essere elevato in cielo significa dominare su tutto il mondo (Mt 28,18); essere nascosto dalla nube significa entrare nella dimensione di Dio: nella sua invisibilità, nella sua onnipotenza e nella sua onnipresenza: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20).
Cristo ha vinto: “Gli fu data una corona ed egli uscì vincitore per vincere ancora” (Ap 6,2). E noi siamo il suo corpo che è la Chiesa. Se il capo è vittorioso nella passione, anche noi in questa nostra passione “siamo più che vincitori” (Rm 8,36-s): camminiamo insieme a lui, che è il perfetto compimento di ogni cosa.
E allora comprendiamo che l’Ascensione è la festa della speranza perché è l’anticipazione del Paradiso: si realizza oggi ciò che si realizzerà alla fine. Cristo regna finché i nemici non siano posti tutti sotto i suoi piedi. “Nel tuo Figlio asceso al cielo – recita la Colletta – la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo nella gloria”.
L’ha ripubblicato su SrIlariaScarcigliae ha commentato:
Ascensione Anno A 2020