La lunga pagina del Vangelo che la liturgia ci propone oggi (Gv 9,1-41) presenta, oltre a Gesù, altri personaggi o gruppi di personaggi: i suoi discepoli, i farisei, i genitori del cieco e il cieco stesso.
Siamo a Gerusalemme. Ai bordi della strada, dove la gente va e viene, c’è un uomo seduto a mendicare: è cieco dalla nascita. La sofferenza di quell’uomo interroga i discepoli di Gesù, ma non sul piano della compassione e della solidarietà; non si pongono il problema di come aiutarlo: vogliono sapere di chi è la colpa:
Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?
Non siamo anche noi, talvolta, vittime di questa mentalità? Di fronte alla terribile epidemia di questi tempi, ad esempio, non viene spontaneo chiedersi di chi è la colpa? Non parlo delle colpe oggettive di chi non rispetta le norme ed espone gli altri al contagio – quelle ci sono e sono assai gravi! Sto parlando invece di quella mentalità magico-religiosa che si riferisce a “colpe” castigate dalla divinità. E anche di quella mentalità secolarizzata che si esprime nella “dietrologia” e dà la colpa ai poteri occulti, alle trame dei servizi segreti, ai disegni geopolitici, alle multinazionali… Entrambe le mentalità – quella magico-religiosa e quella dietrologico-secolarizzata – sono forme di cecità spirituale, ossia di mancanza di fede.
Gesù risponde:
Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio.
Tutto ciò che accade, accade perché siano manifestate in noi le opere di Dio; particolarmente ciò che ci mette in crisi, ci costringe a modificare i nostri schemi, rivela i nostri limiti e smonta le nostre presunzioni.
Noi non comprendiamo, non vediamo – e in questo non c’è peccato. Il peccato sta nella presunzione di vederci. Questa è la colpa dei farisei, ai quali Gesù dice:
Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane.
I farisei sono attaccati ai loro pregiudizi: Gesù, facendo del fango nel giorno di sabato ha trasgredito i precetti della tradizione. Arrivano quindi a negare l’evidenza della guarigione pur di non mettere in discussione i loro schemi. E di fronte al fatto innegabile, reagiscono con la violenza, espellendo il cieco guarito dalla comunità.
Questa violenza fa presa persino sui genitori del cieco nato. La pressione sociale, il conformismo, tolgono loro il coraggio e la libertà di aprirsi alla luce di Cristo.
Paradossalmente, l’unico che ci vede è il cieco. Egli è il vero povero in spirito a cui appartiene il Regno dei Cieli (Mt 5,3). È cieco, e sa di esserlo. E sta lì perché anche noi riconosciamo la nostra cecità. Tutti siamo ciechi dalla nascita. I nostri occhi, più che finestre sul mondo, sono specchi che riflettano i nostri fantasmi, scambiati per verità. Il buio e la paura ci hanno chiuso gli occhi e ci fanno proiettare sulle palpebre i nostri timori[1].
Per questo Gesù si mescola col nostro fango, si sporca le mani con la nostra miseria. Bisogna lasciargli spalmare i fango sui nostri occhi e lavarci in lui – lasciare che Cristo rimuova la nostra cecità dall’interno e dall’esterno. Lasciare che Cristo doni nuovi criteri, una luce nuova, uno sguardo su cose mai viste.
Ciò che ci mette in crisi – come la tremenda epidemia che stiamo affrontando – ci rivela che siamo tutti ciechi: non conosciamo Dio, non comprendiamo il mondo. Ed è qui che la crisi si rivela come un’occasione di grazia (perché – come ripeteva santa Teresa di Lisieux – Tutto è grazia!). È l’occasione per accogliere l’opera di Dio, il “fango” che Gesù ci pone davanti agli occhi. “Siamo esortati a immergerci in lui, l’inviato del Padre, per ascoltare la sua parola. Chi l’ascolta, viene alla luce: la sua vera identità di uomo libero, con una nuova immagine di sé e degli altri, di Dio e della sua legge”[2]. Ed allora, invece di attribuire colpe agli uomini o a Dio, accoglieremo la verità del Dio che per amore si mescola col nostro fango, ci libera dalla rigidità dei nostri schemi, ci insegna la via della misericordia e sostiene la nostra responsabilità.
[1] Cf. S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Giovanni, vol. I, Milano 2002, p. 225.
[2] Ivi, p. 239.
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