La settimana scorsa, attraverso le figure di Mosè e della vedova importuna, il Signore ci ha parlato dell’importanza della preghiera costante, continua. Oggi ci dice come dev’essere la preghiera per essere accetta.
Il primo insegnamento lo troviamo nel libro del Siracide (35,15-22). Da una parte si dice che Dio non fa preferenza di persone, ma poi il testo sembra contraddirsi perché afferma che Dio preferisce i poveri. Come mai? Perché Dio è come una mamma, che cura in modo speciale i figli più deboli.
Risuonano qui le parole di Gesù: “Beati voi, poveri” (Lc 6,20); ma soprattutto: “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3), cioè coloro che non pretendono ma stanno in umiltà davanti a Dio e confidano in lui: La preghiera del povero attraversa le nubi.
Ma come raggiungere questa povertà di spirito? Devo chiedermi dove sta il mio cuore: se sta nella ricerca di Dio o nella ricerca di me stesso.
Questo ci viene plasticamente insegnato nel vangelo[1].
Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri.
Consideriamo bene questo atteggiamento: non si tratta di una legittima fiducia in se stessi, ma di un’arroganza – tipica degli insicuri – che sopravvive soltanto criticando gli altri. Chi è così, proprio perché ha paura di essere inferiore, ha bisogno di affermare la propria superiorità sugli altri e di farlo sentire attorno a sé. Proprio l’ostentazione di sé fa capire quanto poco salde siano queste persone. Pretendono di essere giusti, ma fatto stesso che disprezzino gli altri dimostra quanto poco giusti essi siano in realtà. Questo verbo “disprezzare”, Luca lo userà nella passione per descrivere l’atteggiamento di Erode davanti a Gesù: “ebbe disprezzo per lui”. Proprio a simili persone, presuntuose e sprezzanti, Gesù rivolge la sua parabola.
Il fariseo (“puro”) comincia la preghiera in modo ineccepibile: ringrazia Dio. Bene! Ma di cosa lo ringrazia? Fateci caso, non gli interessa tanto l’essere fedele alla Legge di Dio, quanto non essere come gli altri uomini. La sua fedeltà alla Legge non è amore per Dio, ma amore di sé: tutto il sui discorso non è una lode di Dio, ma di se stesso… Il suo stare in piedi, il fatto che “pregava tra sé” – quasi a dire che non rivolgeva il suo pensiero a Dio, ma a se stesso… Il Fariseo usa Dio come uno specchio delle sue vanità. Dov’è il suo cuore? Le opere del fariseo possono anche apparire buone, ma il suo cuore non lo è. E proprio qui si gioca tutto: perciò le opere sono contaminate e diventano altrettante bestemmie. Il fariseo in realtà non conosce Dio, perché Dio è amore, è grazia, è misericordia. Il fariseo, che non ama il suo prossimo: ha bisogno del prossimo, ma per avere qualcuno da disprezzare e così sentirsi migliore. In definitiva è ancora più colpevole del pubblicano.
Il pubblicano (un esattore delle imposte al soldo dei romani, impuro, corrotto, traditore) non ha coraggio di avvicinarsi, non osa alzare lo sguardo. La sua è una preghiera di richiesta, non di ringraziamento: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Ma chi è al centro? Dio e la sua misericordia. Dov’è il suo cuore? È come il figlio prodigo: sa di non aver nulla da far valere e spera solo nella misericordia di Dio, gli chiede di essere perdonato, di ricominciare la relazione con lui.
L’intento della parabola non è tanto di presentare il fariseo come esempio negativo e il pubblicano come esempio positivo, quanto quello di far comprendere qual è la valutazione agli occhi di Dio[2]. Il pubblicano pregando ha ottenuto il perdono, mentre il fariseo proprio nel suo pregare ha peccato, arrogandosi il potere di giudicare l’altro uomo, togliendo a Dio la possibilità di perdonare e all’uomo quella di essere redento.
Per capire bene la parabola, bisogna che ci sentiamo feriti in noi stessi da quel che Gesù dice del fariseo. Può darsi che ci sentiamo tranquilli, con la coscienza a posto: questo va bene. Ma la verità del nostro atteggiamento religioso si vede dal nostro modo di guardare gli altri. Se ci sentiamo superiori, se li disprezziamo, questo significa che siamo falsi davanti a noi stessi, perché siamo falsi davanti al prossimo – e quindi siamo falsi anche davanti a Dio.
Gettiamo allora il nostro cuore in Dio, come il pubblicano. Non fidiamoci della nostra pseudo-giustizia. Chiediamo a Dio che ci renda giusti Lui! Allora comprenderemo il discorso di Paolo: al termine della sua vita, prima di essere martirizzato dichiara senza ombra di presunzione:
Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede (1Tm 4,6-18)
Ho dei meriti? Sì, però non sono meriti che vengono da me, ma da Dio che mi ha dato la grazia per compiere quello che ho compiuto.
Attende “la corona di giustizia” come dono, come “l’incoronazione che Dio stesso fa dei suoi doni di grazia e di amore liberamente accettati dalla sua creatura” (s. Agostino).
[1] Cf. F. Bovon, Vangelo di Luca, vol. 2, Brescia 2007, pp. 785-803.
[2] Cf. V. Fusco, Oltre la parabola, Roma 1983, pp. 138-140.
La cosa che mi colpisce maggiormente nell’episodio di oggi è l’indifferenza del fariseo nei confronti del pubblicano. Il fariseo non considera il pubblicano un suo simile, figlio dello stesso Padre, fatto a immagine e somiglianza di Lui.
Considerando il pubblicano suo simile, il fariseo dovrebbe avere sentimenti di solidarietà, di comprensione e compassione, sentimenti propri di un “cuore di carne” (Ezechiele 36, 26-27).
Considerando il pubblicano figlio di Dio, fatto a Sua immagine, dovrebbe sentire rispetto verso la massima creazione di Dio: l’essere umano. Invece il fariseo è freddo, c’è un muro tra lui e il pubblicano. Questo mi colpisce e mi rattrista. Prego Dio di darmi un cuore di carne, pronto a comprendere e aiutare chi ha bisogno, di farmi vedere in ogni persona il Suo infinito valore.
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