Negli esseri umani, in tutti, c’è un fondo di religiosità naturale per cui, davanti a difficoltà che superano le nostre forze, ci viene spontaneo fare un atto di fede e chiedere aiuto al Cielo. Di fronte a un male insormontabile, cosa resta da fare se non chiedere aiuto a Dio, raccomandarsi alla Madonna, pregare qualche santo? E così – più o meno – fan tutti: un proverbio inglese dice che è difficile mantenersi atei quando si sta in trincea.
Se ci riflettiamo, però, vediamo che questo atteggiamento “naturale” è sì “religioso”, ma fino a un certo punto. In realtà non ci interessa tanto la nostra relazione con Dio, quanto piuttosto il nostro benessere terreno. La fede in Dio può far comodo, se ci da una mano quando ne abbiamo bisogno; ma poi – come si dice – “avuta la grazia, gabbato lo Santo”.
Eppure il nostro benessere terreno, comunque sia, prima o poi è destinato a finire. E Dio non ci ha creati per finire col nostro benessere terreno: ci ha creati per la sua gloria, per l’eternità, per la beatitudine. Ci ha creati perché potessimo entrare in relazione con lui, come figli amati. “Ma l’uomo nella prosperità non comprende – dice un salmo –: è come gli animali che periscono”. Allora le difficoltà che il Signore permette nella nostra vita sono una benedizione, sono come un richiamo che ci dice: guarda che se vivi solo per il tuo benessere, prima o poi morirai! Se entri in relazione d’amore con Dio, invece, vivrai in eterno! In questo consiste la salvezza.
Nel vangelo (Lc 17,11-19) vediamo dieci uomini (dieci è un numero simbolico, che indica la totalità: stanno a rappresentare tutta l’umanità), che hanno il problema peggiore che si immagini nell’antichità: la lebbra, malattia contagiosa, che rende “impuri”, che taglia fuori dal contesto umano, che impedisce la partecipazione al culto. Essi si presentano dinanzi a Gesù, fermandosi a distanza come prescrive la legge, e si appellano a lui, con un atto di fede commovente: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”.
Luca sottolinea che “appena li vide” Gesù disse: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. I sacerdoti avevano il compito di diagnosticare l’eventuale guarigione. Ma è importante notare lo sguardo di Gesù[*]: uno sguardo di compassione, è lo sguardo di Dio stesso che ama questi uomini e vuole la loro salvezza. Confermando la loro fiducia, Gesù li esorta a credere sin d’ora nella loro guarigione e a presentarsi ai sacerdoti. Essi vanno, fiduciosi nel suo potere e mentre sono in cammino avviene il miracolo: la loro fede li ha guariti.
La seconda parte del racconto, però, dimostrerà subito che se questa fede li ha “purificati”, non è stata sufficiente per “salvarli”. Questo è il punto culminante del racconto: bisogna capire che, se la fede non diventa relazione con il Signore, improntata a gratitudine ed amicizia, se resta ancorata al proprio benessere terreno, non è autentica fede: rimane bloccata sul proprio tornaconto, non si innalza fino alla salvezza.
Nove di loro, infatti, si accontentano della guarigione e si allontanano da Cristo. Solo uno, un Samaritano – cioè uno straniero, considerato come un pagano – torna a Gesù per ringraziare e lodare Dio. Solo lui interiorizza la sua guarigione, rafforza la sua fiducia iniziale, approfondisce la propria fede e completa la sua conversione.
Per gli altri, la consapevolezza di essere membri del popolo eletto, non stranieri, li porta a ritenere che la guarigione sia una specie di diritto acquisito. Non ostante la guarigione, contraggono un male peggiore della lebbra: l’ingratitudine.
Dice s. Bernardo: “Fortunato il Samaritano, il quale riconobbe di non aver niente che non avesse ricevuto” e perciò sgorga in lui il grido della lode, del ringraziamento, dell’adorazione di Cristo. Questo fa spazio a un dono superiore alla guarigione: la salvezza.
Quante volte siamo nella condizione dei nove Giudei? Siamo talmente pieni di noi stessi, pronti ad accampare diritti, anche nei confronti di Dio, che non ci rendiamo conto che tutto è dono. E diventiamo ingrati. E infelici. Se si aprono gli occhi sul nostro nulla, appare con chiarezza il dono di Dio ed in noi nasce la gratitudine, l’amore che risponde all’Amore, la lode, la salvezza.
[*] Cf. F. Bovon, Vangelo di Luca, vol. 2, Brescia 2007, pp. 733-ss.
Siamo quasi sempre pieni di noi stessi, soprattutto di questi tempi: le comodità, la vita frenetica, improntata alla ricerca continua del divertimento, ci portano ad avere un atteggiamento di superiorità verso gli altri, ad essere sempre insoddisfatti e ingrati verso quelli che si spendono per noi, in primis verso la famiglia. Non pensiamo che c'è qualcuno in casa che ci prepara il cibo, ci lava i panni, riordina, ecc. No, non ci pensiamo: tutto ci è dovuto. Anzi, critichiamo i familiari, perché dovrebbero fare di più. Questo atteggiamento si verifica anche verso Dio, che essendo onnipotente, deve accontentarci in tutto, se ci ama. Anche Dio, come i nostri simili, diventa uno strumento. A volte può succedere, e può essere una fortuna, che nella nostra vita si verifichi un evento doloroso: la morte di una persona cara, una malattia. Allora, se ci fermiamo a riflettere con umiltà, possiamo capire che abbiamo tanti doni che prima non consideravamo. E, visto che questi doni, non ce li siamo dati noi, ma ce li ha donati Dio, può essere che ci sentiamo grati verso di Lui e ci mettiamo in Suo ascolto e al Suo servizio, perché abbiamo capito che solo in Lui abbiamo e avremo la gioia piena.