Tutti i cristiani sono consapevoli dell’importanza della missione nella Chiesa: la natura stessa della Chiesa è missionaria, la Chiesa è “mandata” nel mondo per annunciare il Vangelo, per battezzare, per dare testimonianza della carità… Ed incessantemente il Signore chiama ragazzi e ragazze, uomini e donne per mandarli all’umanità intera come testimoni, annunciatori e costruttori del suo Regno. E siamo abituati a definire questa chiamata col nome di “vocazione”.
Sicuramente nel passato c’è stato un certo fraintendimento di questo termine: si è inteso in senso restrittivo. “Vocazione” veniva a significare quasi esclusivamente la chiamata al sacerdozio o alla vita religiosa. Oggi abbiamo riscoperto che è “vocazione” anche quella al matrimonio e alla famiglia, anche quella all’impegno secolare… E che, pertanto, non esiste un cristiano (uomo o donna) che non abbia “una” vocazione. Il problema, si dice spesso, è non sbagliare vocazione, è capire ciò che il Signore chiede a ciascuno e realizzarlo.
Tuttavia c’è un elemento comune a tutte le vocazioni. Voglio dire: c’è qualcosa che il Signore chiede a me sacerdote, a te padre o madre di famiglia, a te religiosa, a te laico consacrato… Il Signore ci chiede di “non vivere più per noi stessi, ma per Lui che è morto e risorto per noi”. Di non avere come obiettivo, come scopo della vita, il nostro “io”, ma il “Tu” con la “T” maiuscola: il Signore!
Capite allora perché si parla – giustamente – di “crisi delle vocazioni”. Ci sono pochi giovani nei seminari, ci sono pochi novizi e novizie, ma ci sono anche poche coppie che si preparano al matrimonio o lo vivono come una vera missione al servizio del Regno di Dio. Perché? Perché la maggior parte dei cosiddetti “cristiani”, vive per il proprio “io” e non per il Signore: ricerca le proprie consolazioni, i propri comodi, i propri comfort… e non il Signore.
Oh, certo, talvolta si prega anche, si va anche a Messa, si sa che il Signore c’è… Ma è un “Lui” che sta da qualche parte (in cielo, in chiesa…), non un “Tu” che sta davanti a me e mi coinvolge in una relazione viva, personale, concreta.
Anche il giovane Isaia viveva così: credeva in Dio, andava al tempio… però Dio era semplicemente un “Lui”. Ma un bel giorno accadde ciò che leggiamo in Is 6, 1: Io vidi il Signore, dice Isaia. Questo giovane capisce che Dio non è un’idea, una presenza evanescente: è Qualcunoche gli sta davanti, nella sua tremenda e affascinante santità, e lo coinvolge in una relazione.
Davanti alla rivelazione di Dio, nell’incontro a tu per tu con Lui, il giovane si converte. Non che passi dall’ateismo alla fede: credeva già prima! Solo che capisce di colpo di essere un uomo dalle labbra impure, cioè un peccatore, in mezzo ad altri peccatori. La santità di Dio rivela ciò che c’è nel fondo del nostro cuore: rivela che siamo lontani da Dio. Ma questa non è l’ultima parola: nel momento in cui Dio gli fa riconoscere il peccato, lo purifica e lo santifica: è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato, gli dice il serafino.
Dopo di che, ecco, il mistero della vocazione! Finalmente Isaia ode la voce del Signore che dice: “Chi manderò e chi andrà per noi?”.
Il Signore lo diceva anche prima, quando Isaia ancora lo riteneva un “Lui” che stava da qualche parte, ma Isaia non era capace di udirlo. Ora l’ha incontrato come un “Tu” che gli sta di fronte e lo ama. Può udire la vocazione perché è entrato in relazione di amore, di amicizia con lui. E ad un amico del genere non si può che rispondere: Eccomi, manda me!
Anche Pietro, di cui leggiamo la vocazione in Lc 5, 1-11, aveva già conosciuto Gesù: il sabato precedente l’aveva ascoltato predicare nella Sinagoga, l’aveva visto scacciare i demoni; l’aveva ospitato a casa propria e Gesù aveva guarito sua suocera che stava a letto con la febbre; la sera del sabato aveva guarito una folla di malati proprio davanti a casa sua. Oggi è salito sulla sua barca ed ha ammaestrato le folle. Pietro sta lì, ascolta, osserva, ammira… Ma Gesù è ancora un estraneo.
Attenti bene, perché questa potrebbe essere la nostra situazione: sappiamo chi è Gesù… Ma è ancora un “Lui” col quale entriamo in relazione solo superficiale.
Le cose cambiano quando Gesù interviene nel campo in cui Pietro si sente padrone e maestro: Pietro è un pescatore, un capo pescatore. Ebbene, Gesù interviene proprio nella pesca! Gli riempie la rete di pesci. Ecco, solo a questo punto Pietro capisce chi è Gesù e chi è egli stesso: Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. Anche Pietro si converte, perché ha incontrato il Signore a tu per tu, sul proprio terreno.
Ed anche per Pietro, questo è il momento della vocazione: Non temere– gli dice Gesù – d’ora in poi sarai pescatore di uomini. A queste parole, Pietro e quelli che erano con lui, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Allora il messaggio è chiaro: si può accogliere la vocazione e vivere la vita come una missione solo se si è incontrato il Signore a tu per tu. Per questo, l’unica pastorale vocazionale efficace, l’unico modo di costruire una chiesa autenticamente missionaria, è portare le persone ad incontrare Cristo risorto, vivo e presente tra noi.
L’ha ribloggato su SrIlariaScarcigliae ha commentato:
V Domenica T.O. Anno C