«Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10, 42).
Eh sì, Gesù, lo sappiamo bene. Ne abbiamo visti e ne vediamo di abusi di potere, di prepotenze, di scandali…! E come ci viene facile accusare, disprezzare, insultare quella classe di corrotti e di oppressori!
Un po’ più difficile è accogliere quel che Gesù dice subito dopo:
«Tra voi, però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (v. 43).
Davvero tra noi non è così? J. Ratzinger si domanda come sia stato possibile che i successori degli apostoli , ai quali era stato detto che dovevano cercare di non imitare i grandi di questo mondo, una volta che il cristianesimo era diventato religione di stato, abbiano ritenuto giusto diventare i principi di questa società: così facendo si ritorna alla situazione pagana!
Il desiderio di primeggiare e di spadroneggiare – il vizio capitale della superbia – è sempre in agguato. Dappertutto. Persino tra gli apostoli di Cristo.
In queste domeniche la liturgia ci fa ascoltare la narrazione del cammino di Gesù verso Gerusalemme, verso la croce. Lungo questo cammino Gesù ripete il suo invito a seguirlo, invito rivolto ai discepoli di tutti i tempi, quindi a ciascuno di noi, Ma si scontra con l’incomprensione dei discepoli, che Mc ci presenta come specchio della nostra incomprensione, che smaschera la nostra durezza di cuore e di mente.
Domenica scorsa abbiamo ascoltato Gesù che, ai discepoli che hanno abbandonato tutto per seguirlo, prometteva il centuplo su questa terra e la vita eterna. Giacomo e Giovanni colgono al volo l’occasione: anch’essi hanno lasciato tutto per seguire Gesù; vogliono perciò assicurarsi un posto di rilievo nel suo regno messianico, nella sua gloria.
- Quale gloria aspettano? La gloria terrena, il potere, il successo: non hanno capito niente di quello che Gesù va a fare a Gerusalemme.
- Cosa chiedono? Di sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, cioè di essere i primi dignitari del regno: chiedono il potere.
- Come lo chiedono? Con arroganza, come una rivendicazione: “Maestro, vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo“. Abbiamo lasciato tutto per seguirti, abbiamo diritto a un posto.
Gesù afferma chiaramente: Voi non sapete ciò che domandate. Non avete ancora capito chi sono io e che cosa vado a fare a Gerusalemme. Isaia (53, 10-11) lo aveva preannunciato: il Cristo sarebbe stato prostrato con dolori, avrebbe offerto se stesso in sacrificio di riparazione, addossandosi le iniquità degli uomini.
Chi starà alla sua destra e alla sua sinistra quando il viaggio di Gesù sarà concluso? Due ladroni crocifissi! Certo, se avessero capito ciò che domandavano, Giacomo e Giovanni si sarebbero ben guardati dal farlo!
Ora, se loro erano – in un certo senso – scusabili (perché Gesù non era ancora stato crocifisso, ed essi non avevano ancora ricevuto lo Spirito Santo) noi non siamo scusabili. Se pretendiamo da Cristo crocifisso il successo e il potere terreno, ci dimostriamo veramente stolti.
Ma Gesù non si arrabbia, e con molta pazienza li invita a condividere anzitutto la realtà concreta della sua obbedienza al Padre: “Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. E i discepoli, senza capire, rispondono sì. Forse pensano che si tratti di celebrare qualche rito particolare: bere alla stessa coppa (come si faceva nella cena ebraica), immergersi insieme nell’acqua (come faceva Giovanni il Battista).
Certo a noi la risposta di Gesù fa venire alla mente due sacramenti: il Battesimo e l’Eucaristia (il calice). Ma cadremmo nello stesso errore dei discepoli se pensassimo che ripetere materialmente i riti di questi sacramenti ci dia diritto a qualche trionfo della nostra superbia.
Ricevere il battesimo di Gesù significa immergersi nella sua morte, morire a noi stessi, lasciarsi espropriare dalla vita egoistica, per risorgere a vita nuova, in modo che – come dice san Paolo – “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20).
Bere il calice di Gesù, fare veramente eucaristia, significa condividere la sua passione, entrare nella logica del suo amore “fino alla fine” (Gv 13, 1), l’amore che dà la vita per gli amici (Gv 15, 13), che muore non per i giusti ma per i peccatori (Rm 5, 6-8). Fare eucaristia significa lasciare che il nostro sangue sia trasformato nel Suo sangue divino, e poi sia versato per la salvezza del mondo.
La richiesta di Giacomo e Giovanni era dettata da superbia, e la reazione degli altri dieci da invida. Gesù capovolge le aspettative degli uomini e afferma che chi vuol essere il primo deve essere come Lui: l’ultimo di tutti, il servo di tutti, che dà la sua vita per amore nostro.
Cristo, non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti, e chi lo segue deve imitarlo. Il riscatto è prezzo che viene pagato per liberare uno schiavo. Con la sua vita, Gesù paga a favore e al posto dei peccatori e ci coinvolge nella sua azione d’amore: diventiamo così – per usare l’espressione di san Francesco – altri cristi, partecipiamo all’opera della redenzione. E allora anche per ciascuno di noi si realizzerà la parola di Isaia che si è già realizzata per Cristo:
“Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza”.
L’ha ribloggato su SrIlariaScarcigliae ha commentato:
XXIX Domenica T.O. Anno B