Genitori, sacerdoti, insegnanti, catechisti… Quante volte ci capita di perdere la speranza in quel che facciamo?
Ci affanniamo ad educare con le parole e con l’esempio, ci impegniamo ad insegnare con studio e fatica, organizziamo, predichiamo, accompagniamo… Ma i nostri sforzi sembrano cadere nel vuoto. Tanti figli si perdono, la maggior parte dei giovani si allontana dalla Chiesa, molti nostri allievi sembrano refrattari ad ogni insegnamento… I frutti del nostro lavoro non si vedono o sono scarsi: piccoli numeri, gruppetti sparuti di fedeli, spesso deboli e inadeguati… E siccome viviamo in una “società manageriale”, al momento dei nostri bilanci consuntivi ci troviamo privi di frutti e ci sentiamo dei falliti.
C’è poi una dimensione ancor più profonda di questo senso di fallimento, ed è quella che riscontriamo nei confronti di noi stessi. Sinceramente impegnati nel cammino spirituale, ascoltiamo e meditiamo la Parola di Dio, preghiamo, riceviamo con frequenza i sacramenti, ci impegniamo a vivere la carità… Eppure, quando andiamo a verificare il nostro livello di crescita, ci troviamo sempre mancanti, difettosi, mediocri. E perdiamo la speranza.
Le due parabole di Mc 4,26-34 vengono incontro a questi nostri sentimenti, così comuni, per correggerli e riequilibrarli.
Genitore, sacerdote, insegnante, catechista… se sei al servizio del Regno di Dio, il tuo compito è di seminare il Vangelo, come lo ha seminato Gesù, “con fatti e parole intimamente connessi” (cf. DV 2). Sei responsabile di questa semina, sei tenuto a farla al meglio delle tue possibilità. La semina è un lavoro che costa lacrime e sangue: “Nell’andare, se ne va piangendo portando la semente da gettare” (Sal 126, 6).
Ma, una volta seminato, non c’è più niente da fare: bisogna solo pazientare.
Se il contadino, dopo aver seminato, decidesse passare in veglia le sue notti, pensando di accompagnare in questo modo la crescita della messe, non farebbe altro che rovinare la propria salute e la messe seguirebbe comunque il corso prestabilito. Se – peggio – il contadino volesse rendersi conto del processo di germinazione e di sviluppo ed andasse a rovistare nella terra per vedere ciò che accade, comprometterebbe gravemente il raccolto. Così noi: dobbiamo seminare al meglio delle nostre possibilità, e poi dobbiamo lasciare fare a Dio ed attendere fiduciosi: “Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge” (Gc 5, 7).
Se i frutti che raccogliamo sono scarsi, se i numeri si assottigliano, se ci ritroviamo in pochi, ricordiamoci che il Signore può fare un grande albero con un piccolo ramoscello, umilia l’albero alto e innalza l’albero basso, fa seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco (cf. Ez 17, 24). Uno sparuto gruppetto di pescatori e povere donne della Galilea ha portato il Vangelo fino ai confini del mondo.
Questo, lo ripeto, vale per l’impegno educativo familiare, per la vita sociale e professionale, per la cura pastorale, e per il cammino spirituale personale. Dobbiamo coltivare la virtù della speranza, sperando – come Abramo – “contro ogni speranza” (Rm 4, 18). Attendere fiduciosi anche quando non si vede niente, anche quando tutto sembra smentire le nostre attese, anche quando diciamo con Geremia: “Aspettavamo la pace, ma non c’è alcun bene, il tempo della guarigione, ed ecco il terrore” (Ger 14, 19). Attendere fiduciosi perché ciò che abbiamo seminato non è una teoria o una morale umana: è la Parola di Dio “viva ed efficace” (Eb 4, 12) ed è in essa, non certo nelle nostre capacità, che abbiamo fiducia.
[Una riflessione alternativa sul vangelo di oggi si trova in https://aldovendemiati.blog/2012/06/19/fino-a-quando/ ]
L’ha ribloggato su SrIlariaScarcigliae ha commentato:
XI Domenica Tempo Ordinario Anno B 17 giugno 2018