Diamo prima di tutto uno sguardo alle tre letture di questa V domenica del Tempo ordinario, anno B[1].
La prima lettura ci ha fatto ascoltare un brano del lamento di Giobbe: quest’uomo pieno di dolori, di lutti, di malattie… Il suo lamento si potrebbe intitolare: la miseria della condizione umana.
La vita dell’uomo – dice – è un duro lavoro, i suoi giorni trascorrono con la velocità di una spola che tesse la tela; la vita è un soffio. “Un soffio”… è qualcosa che appena emesso si disperde senza lasciare traccia… Breve, inconsistente.
Nel vangelo ritroviamo tutto un campionario delle cose che fanno soffrire l’uomo e rendono la sua vita – come diceva Giobbe – simile a quella di uno schiavo.
Si parla della febbre, di ogni sorta di malattie e di quel male oscuro, più terribile di tutti, che è, per il Vangelo, la possessione diabolica.
Ma il brano del vangelo di oggi è il racconto di una giornata come tante di Gesù all’inizio della sua vita pubblica: ogni giorno Gesù curava i malati, pregava e predicava il Regno, annunziava il Vangelo.
La seconda lettura si inserisce a questo punto, come un appello forte all’annunzio del vangelo: “Guai a me se non evangelizzo!” dice san Paolo.
Il punto da cui dobbiamo partire è proprio quello dell’esperienza della sofferenza, ricordata da Giobbe: la vita dell’uomo sulla terra è un duro lavoro; è una battaglia:
All’esterno, nel nostro corpo, troviamo malattie, dolori, fame, morte. Dentro, nella nostra anima, troviamo lo scoraggiamento, che porta un sofferente come Giobbe a dire perfino: “Maledetto il giorno in cui sono nato!”.
Questa situazione non è voluta da Dio. Dio ha creato l’uomo perché fosse felice: dice un Salmo che l’ha fatto poco inferiore agli angeli, lo ha coronato di gloria e gli ha sottomesso ogni cosa: le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare.
Perché allora questo abisso tra quello che Dio voleva per noi quando ci ha creati e la nostra miseria? La Scrittura risponde: per il peccato!
Certamente, noi cristiani e tutti gli uomini dobbiamo darci da fare perché la condizione dell’uomo su questa terra migliori: dobbiamo dare da mangiare e da bere ai bisognosi, vestire chi non ha da coprirsi, alloggiare i senzatetto, curare gli ammalati, visitare i carcerati… E dobbiamo darci da fare perché la società sia più giusta.
Ma questo non basta! Perché il peccato che è nell’uomo, se non viene sconfitto, porterà sempre nuove ingiustizie e nuove sofferenze!
Certo, Gesù compie anche guarigioni fisiche: l’abbiamo visto nel Vangelo. Come in altre occasioni dà perfino da mangiare alla folla moltiplicando i pani e i pesci.
Ma non è questa la cosa più importante: quando Gesù moltiplicò i pani la gente voleva prenderlo per farlo re, ma lui se ne scappò via. Nel Vangelo di oggi la gente lo cerca come guaritore: avrebbe potuto aprire una specie di ospedale nella casa di Pietro, se la guarigione fisica fosse stato lo scopo principale.
E invece Gesù se ne va a pregare in un luogo deserto la mattina presto: è il Padre l’unica ragione del suo operare.
E quando Pietro lo trova e gli dice: “Tutti ti cercano”, lui se ne va in giro a predicare per tutta la Galilea. E predica “il Vangelo”, ossia la buona notizia che Dio dà la vita agli uomini, che la vita ha un senso in Cristo che salva e ci riempie di gioia.
Se la nostra vita è triste, perché piena di sofferenze, dobbiamo chiedere a Cristo di guarirci con il suo Vangelo. Ma se abbiamo accolto il Vangelo dentro di noi, dobbiamo metterci a servizio del Regno di Dio annunciando il Vangelo a tutti, nello spirito di san Paolo:
“Non è per me un vanto predicare il Vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il Vangelo!”. Si fa servo di tutti per conquistare qualcuno. Che vantaggio spera di ottenere? Nessun vantaggio: chi ha conosciuto la gioia di Cristo non può tenersela per sé.
[1] Riprendo in forma abbreviata alcune riflessioni di R. Cantalamessa.
Grazie.
L’ha ribloggato su SrIlariaScarcigliae ha commentato:
V domenica Anno B Tempo Ordinario