I capitoli 24 e 25 del vangelo di Matteo sono un continuo richiamo alla vigilanza, ad attendere il Signore che viene. In particolare, la parabola dei talenti (25, 14-29) ci insegna che la vigilanza non si riduce a tensione interiore: occorre darsi da fare, impegnare tutte le energie in vista di un grande incontro, non essere fannulloni.
Si tratta di un richiamo molto forte, soprattutto per gli uomini e le donne del nostro tempo. Noi siamo abituati alle comodità, al divertimento, all’abbondanza. Il pane non ci manca, nemmeno il companatico, la casa, il divertimento… In questa situazione rischiamo di impigrirci, di dire “C’è pace e sicurezza!”– come ammonisce san Paolo (1 Ts 5, 1-6) – e cadere in quel tremendo vizio capitale che è l’accidia, la pigrizia spirituale di chi non vuol progredire nella strada del Signore.
Questo è il senso della parabola. C’è un padrone che si fida dei suoi servi e consegna loro i suoi beni in amministrazione, a ciascuno secondo le proprie capacità. Le cifre che distribuisce sono grandi (un talento è pari a una quarantina di chili di metallo prezioso: al cambio di oggi, poco meno di diciannovemila euro).
Ma il denaro è fatto per essere esposto al rischio e speso, altrimenti resta improduttivo. Così vediamo che i primi due servi della parabola vanno subito ad impiegare i talenti ricevuti.
Poi viene il momento della resa dei conti. I servi buoni e fedeli hanno raddoppiato il capitale. Il padrone non fa differenza tra chi ha guadagnato cinque e chi due: premia l’impegno, lo sforzo: Prendi parte alla gioia del tuo padrone!
C’è però un servo malvagio e pigro. Questi non ha fatto fruttare il talento ricevuto, ma lo ha nascosto in una buca sotterra. Questo servo dimostra di non aver capito il senso del denaro affidatogli: pensa di dover essere soltanto un depositario, che restituisce quanto ha ricevuto; invece l’intenzione del padrone è di renderlo un amministratore che fa fruttare quanto ha in mano.
Si potrebbe dire: non è colpa sua, ha capito male, forse il padrone non si era spiegato… Eppure gli altri due servi hanno capito bene! Allora perché lui non capisce?
Secondo le sue parole, non capisce perché ha avuto paura; ma non basta: si mette anche a giudicare il suo Signore e lo accusa di essere un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso.
In realtà, il padrone dichiara che dietro quella paura c’è qualcosa di più grave: la malvagità e la pigrizia: è un fannullone.
Questo servo, come tante volte anche noi, ha un senso minimalista e meschino della giustizia: mi hai dato uno, ti ridò uno e stiamo pari. Così dimostra di non avere il senso della responsabilità: quella di far fruttare ciò che ha ricevuto!
Così, agitato dalla paura del suo padrone, che ritiene arbitrario e duro, ha preferito non agire, è inutile e, come tale, viene gettato fuori nelle tenebre.
Ora però veniamo a noi. Cristo è questo padrone, noi siamo i servi ai quali lui ha affidato i suoi talenti. Ha avuto fiducia in noi!
Quali talenti abbiamo ricevuto noi? Tanti: la Parola di Dio, i Sacramenti, la preghiera, la vita ecclesiale, le virtù, i doni dello Spirito, le beatitudini… Verrà il momento della resa dei conti. Verrà per tutti noi. Incontreremo Cristo e ci chiederà: Cosa nei hai fatto della Parola che ho posto nelle tue mani? Hai raddoppiato il mio dono? E il giudizio avrà anche un aspetto comunitario: ho ricolmato di doni una comunità ecclesiale; che ne avete fatto dei miei doni? Li avete accresciuti o siete stati fannulloni, pigri, accidiosi?
L’accidia è fondamentalmente “scoraggiamento e disgusto per le cose di Dio”, è la tristezza cattiva del servo malvagio e fannullone. I nostri peccati di omissione si radicano lì.
Si dirà: ma infondo è solo una forma di debolezza, non sembra così grave…! Il fatto è, però, che quando la tristezza cattiva arriva ad opprimerci l’anima, nasce la malizia e non più la sola debolezza; nasce il rancore riguardo al prossimo, la pusillanimità davanti al dovere da compiere, lo scoraggiamento, il torpore spirituale sino alla dissipazione dello spirito e la ricerca delle cose proibite. Questa è la strada lungo la quale si perde dapprima la gioia, poi la vocazione e infine la fede.
Ma non vogliamo davvero arrestarci a questo discorso negativo; dobbiamo capire come guarire dall’accidia, come convertirci, come far fruttificare i nostri talenti.
Il padrone stesso dice al servo: Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, tornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Cosa rappresentano mai questi “banchieri”, che hanno il potere di moltiplicare il danaro?
Innanzitutto – va notato – i banchieri sono “altri” dal servo. Da solo io non ho il potere di accrescere il mio denaro: devo rivolgermi ad altri. Dunque mi viene richiesta l’umiltà di riconoscere il mio limite e di affidarmi a qualcun altro. Al Signore? Non basta! Devo affidare i miei talenti a qualcuno che è come me, forse anche peggio di me (un banchiere non è, necessariamente, un santo!), ma sa come si negozia il denaro.
San Girolamo dice che i banchieri stanno a rappresentare i pastori della chiesa, e – in un certo senso – anche tutti i credenti. Essi possono moltiplicare il denaro – che è segno della Parola di Dio ricevuta nella fede. Come? Moltiplicando le opere di carità suscitate dalla parola della fede!
Quando il Signore trova questo frutto nella nostra terra, ci dice: Bene, servo buono e fedele… prendi parte alla gioia del tuo padrone! Questa è la cosa più importante: se portiamo frutto, entriamo nella gioia: il premio è grande. Mentre l’accidia è tristezza, la conversione è gioia!
Ma c’è qualcosa di più straordinario nella conversione oltre la gioia dell’uomo: è la gioia di Dio. Entra nella gioia del tuo padrone! Questo è un mistero: io posso far felice il mio Dio, e poi prendere parte alla sua gioia. Esclama Gerolamo: “Cosa mai può essere dato al servo di più grande di questo: stare con il Signore e vedere la gioia del suo Signore?”.
Grazie.
L’ha ribloggato su SrIlariaScarcigliae ha commentato:
XXXIII Domenica T.O. Anno A