Siamo abituati a leggere il cap. 23 di Matteo come un’invettiva contro gli scribi e i farisei. In realtà ogni pagina del Vangelo è scritta per la Chiesa. Folle e discepoli rappresentano la comunità cristiana, chiamata a riconoscere lo scriba e il fariseo che sempre si annida nel cuore di ciascuno. Gli scribi e i farisei di cui si parla in tutto il discorso siamo noi, chiamati a riconoscerci in loro. Gesù smaschera quel male segreto che sempre ci insidia e ci impedisce di essere veramente suoi discepoli.
Il posto di Mosè è stato occupato dagli “interpreti” della legge. Il magistero può essere anche autentico: Quanto vi dicono, fatelo! dice Gesù. Ma una dottrina deve essere vissuta, non solo proclamata. I falsi discepoli sono quelli che dicono e non fanno: le opere non corrispondono alle parole. Sono operatori di iniquità.
C’è però qualcosa di peggio che “dire e non fare”, ed è “fare per essere ammirati”. Scribi e farisei utilizzano l’annuncio della parola e la funzione pastorale come “mezzo di scambio” per ottenere ammirazione dagli altri. Chi agisce per ottenere un guadagno personale ha già ricevuto la sua ricompensa: la vanagloria invece della gloria!
Gesù esemplifica questo esibizionismo parlando dei filatteri e delle frange.
I filatteri sono scatolette contenenti parole della Bibbia, che si fissano con strisce di cuoio sul braccio sinistro e sulla fronte. I farisei li portano ben più visibili degli altri. Dovrebbero essere segno di amore alla Parola, che occupa l’agire e il pensare. Le frange erano striscioline a cui si appendevano brevi formule di preghiera. Si tratta dunque di segni sacri, un po’ come l’abito religioso, il crocifisso, la corona del rosario che portiamo anche noi. Ma questo probabilmente si può estendere anche a “segni” di portata ben maggiore, come le opere della Chiesa: ospedali, scuole, mense…
Forse è un male portare dei segni? Forse è un male intraprendere ed espandere le opere? Certamente no, a patto che sottostiano al regime dei segni, che si può riassumere in due regole: 1. Devono essere espressione di qualcosa che c’è: la fede vera, la preghiera autentica, la carità evangelica. 2. Devono essere sobri, perché il compito di un segno non è quello di attrarre l’attenzione su di sé, bensì quello di indicare qualcosa oltre.
Noi stessi, che portiamo e facciamo questi segni, diventiamo a nostra volta segno. Se attiriamo l’attenzione su di noi, siamo falsi ed ipocriti.
Nel discorso della montagna, Gesù parla dei suoi discepoli come “sale della terra” e della loro comunità come “luce del mondo”, come una città costruita sul monte che appare visibile a tutti, come una lampada posta sul candelabro perché faccia luce a tutti: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre buone opere e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 13-16); anzi arriva a dire che il discepolo deve distinguersi dai pagani e dai pubblicani perché fa qualcosa di speciale, di “straordinario” (perissòn), che non è la norma, che non è ovvio. È ciò che “supera” i farisei in quanto “migliore giustizia” (Mt 5, 20.47). Ma perché la cosa sia chiara aggiunge: “Badate di non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere da loro ammirati; altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 6, 1).
Lo straordinario deve effettivamente rendersi visibile, deve accadere, ma – dice Gesù – badate bene che questo non avvenga allo scopo di rendervi visibili[i]. Se la visibilità fosse fine a se stessa, il discepolo smetterebbe di essere discepolo: non sarebbe più uno che segue Cristo, ma uno che pretende di essere seguito lui stesso! Dunque è necessario che qualcosa si renda visibile, ma paradossalmente ci viene detto: Badate che ciò non avvenga perché gli altri vi vedano. “Fate risplendere la vostra luce davanti agli uomini…”, ma badate al nascondimento!
Nascondimento! A chi deve restare nascosta la dimensione visibile della nostra fede? Non agli altri uomini, che anzi devono veder risplendere la luce dei discepoli di Gesù, bensì a noi stessi. Se segui Cristo sei segno, sei luce che illumina; tu stesso, però, non ti accorgi nemmeno di essere tale: lo sei perché segui Cristo, lo sei perché guardi a lui, non a te stesso.
Vi sono dunque due forme di vanagloria: quella di chi cerca l’ammirazione degli uomini e quella di chi si compiace di ammirare se stesso. Ma c’è un’unica forma di discepolato: cercare solo Gesù e dare gloria a Dio solo.
Dunque da un lato abbiamo i farisei – e quindi noi stessi – con l’avidità di riconoscimenti, di omaggi, di primi posti. Dall’altro abbiamo Gesù che cerca il nascondimento e il silenzio, che al potere contrappone il servizio, che proclama il paradosso degli ultimi che diventano primi e dei primi che diventano ultimi. A questo punto sta a noi scegliere da quale parte stare.
[i] Su questo e quanto segue, cf. D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia 1997, pp. 145-ss.
Grazie.
L’ha ribloggato su SrIlariaScarcigliae ha commentato:
XXXI Domenica T.O. Anno A