La liturgia della festa dei Santi ci fa riascoltare il vangelo delle beatitudini: Mt 5, 1-12. Queste “beatitudini” sono, come vediamo, delle sentenze esclamative aperte dalla parola “beato”, assai comuni nella Bibbia e in altri testi mediorientali antichi. Esse appaiono come delle forme concrete di una certa maniera di concepire la felicità dell’uomo.
I pensatori di tutti i tempi si sono interrogati su questo tema: la felicità è qualcosa di possibile, di reale, o è una farfalla variopinta che vola via non appena ci sembra di toccarla? Se è possibile, lo è su questa terra o è riservata a una vita ultraterrena? E, in ogni caso, in cosa consiste?
Anche i saggi biblici si sono occupati di questo. Alle volte hanno espresso delle beatitudini che sono state chiamate sapienziali e che traducono le esperienze della vita quotidiana, come quando il salmista proclama beato l’uomo che ha molti figli, perché lo difenderanno nelle controversie con i suoi nemici (Sal 127, 5); ma molto più spesso hanno proclamato la felicità dell’uomo che mette la sua fiducia in Dio, si preoccupa di essergli gradito, gode della sua benevolenza e della sua protezione (p. es. il Sal 1). Fin dal momento in cui nella Bibbia appaiono le “beatitudini”, esse sono legate a una nota essenzialmente religiosa, che vi resta largamente dominante.
Con i profeti comincia ad emergere una prospettiva nuova, legata a uno dei tratti più caratteristici della fede di Israele. Questa è fede in un Dio che fa una promessa che sorpassa la vita terrena, è attesa di un intervento di Dio che verrà a cambiare il corso della storia. Dio suscita nel cuore dei suoi fedeli una speranza che troverà naturalmente la sua espressione nelle beatitudini escatologiche. Questo è il senso, ad es., dell’oracolo di Is 30, 18: “Il Signore attende di farvi grazia, perciò egli si erge per avere pietà di voi; perché il Signore è un Dio giusto; beati tutti quelli che confidano in lui”.
Nel NT, Paolo rimane nella linea delle beatitudini religiose, prendendole a prestito dai salmi: “Davide – dice – proclama beato l’uomo a cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere: «Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate e i peccati sono stati ricoperti; beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il suo peccato!»“ (Rm 4, 6-8). Si può trovare un’eco della tradizione sapienziale in Gc 1, 25: “Chi fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”; o in Gc 5, 11: “Noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza”.
Ma prevale, evidentemente, la prospettiva escatologica: con la persona e la missione di Gesù il futuro di Dio è entrato definitivamente nella storia, di modo che la felicità del mondo futuro diventa già realtà presente per i credenti. Beati dunque gli occhi dei discepoli che hanno il privilegio di vedere ciò che vedono (Lc 10, 23; Mt 13, 16), beato Pietro che ha ricevuto dal Padre la rivelazione del Figlio (Mt 16, 17), beati coloro per i quali Gesù non è occasione di scandalo (Mt 11, 6; Lc 7, 23), beati quelli che credono senza aver visto (Gv 20, 29). Ma beata soprattutto la madre del Salvatore perché ha creduto (Lc 1, 45.48): questo è il presupposto che dona tutto il suo significato alla duplice beatitudine di Lc 11, 27-28: “Una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!». Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano»“. Le beatitudini diventano così il veicolo dell’annuncio di Cristo.
La felicità a cui si riferisce è la gioia dell’ev-angelo, dell’annuncio festoso: quella a cui l’angelo Gabriele invita la Vergine: “Gioisci, piena di grazia: il Signore è con te!”; quella che esplode nel canto del Magnificat, che scaturisce costantemente dalle parole e dai gesti di Gesù, quella che Gesù stesso promette “piena” ai suoi discepoli nel cenacolo e che caratterizza in toto la diffusione del vangelo. Come ha notato magnificamente un grande biblista del secolo scorso: “Il cristianesimo è stato un’esplosione di gioia, ed è ancora oggi per ogni anima entusiasmo di vivere… Chi non trasalisce fino in fondo al suo essere, scosso da questa novità, non è cristiano” (L. Cerfaux). Qual è la ragione di questa gioia? La comunione con Dio in Gesù Cristo: i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati… sono beati perché sono con Cristo e quindi Dio è con loro!
Perché tanta insistenza sul tema della beatitudine, della felicità, della gioia? Perché questa connessione – anche liturgica – tra beatitudine e santità? Perché noi cristiani di vecchia data siamo spesso vittime della tentazione di ridurre la nostra fede all’accettazione dell’autorità di Gesù maestro-legislatore-giudice e all’esigenza di mettere in pratica i suoi “comandamenti”; il tutto in un clima piuttosto imbronciato e talvolta decisamente triste e deprimente. Un terribile filosofo miscredente della fine dell’Ottocento scrisse un giorno: “Se vedessi un po’ di gioia sul loro volto, forse crederei” (F. Nietzsche). Tante volte, noi cattolici ci preoccupiamo di studiare tante strategie per portare il Vangelo nel mondo di oggi… Una grande strategia è quella che indica san Paolo: “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini” (Fil 4, 4-s). Solo se gli uomini ci vedranno felici, si apriranno al nostro annuncio. Ma badate bene, si tratta di rallegrarsi della vera beatitudine, non di stamparsi sulla faccia un sorriso ipocrita di circostanza e fingere una gioia che non c’è.
Facciamoci dunque un bell’esame di coscienza sulla beatitudine:
- Il Vangelo è per noi un annuncio di felicità? o è semplicemente il racconto di una storia antica? o è un elenco di precetti a cui obbedire?
- La nostra vita è pervasa dalla beatitudine di Cristo? o è un grigio trascinarsi nell’osservanza, più o meno scontenta, della sua legge?
- Le persone che ci incontrano, trovano dei “collaboratori della loro gioia” (2 Cor 1, 24)? o dei menagramo?
- Quali motivi abbiamo per essere felici? e cosa ci toglie felicità?
Grazie, il Signore che è la nostra vita sia la nostra gioia.
L’ha ribloggato su SrIlariaScarcigliae ha commentato:
Solennità di tutti i Santi 2017