Gioia! Quante parole abbiamo per descrivere questo ideale! Proviamo a contarle: felicità, allegria, contentezza, gratificazione, entusiasmo, consolazione, appagamento, soddisfazione, benessere, realizzazione… Sono tutti termini che hanno a che fare con la nostra facoltà di desiderare. Se ci pensiamo bene, tutto quel che facciamo è motivato dal desiderio.
Ci può accadere di trascinare i nostri giorni in una piatta e banale monotonia, senza nulla che ci coinvolga, senza trovare niente per cui “valga la pena” di impegnarci, semplicemente “lasciandoci vivere”. Trascinando la vita in tal modo, è facile che la nostra volontà sia mossa, di volta in volta, dall’attrattiva del momento, dal piacere immediato. Di fatto c’è chi si contenta solo di soddisfare il più immediatamente possibile ogni impulso. Eppure, alla lunga, questi modi di vivere risultano… insoddisfacenti! I can get no satisfaction, cantavano i Rolling Stones. Si fa strada il pensiero del futuro, ci si chiede: quanto durerà questo mio modo di esistere? Cosa mi aspetta quando sarò vecchio? Perché vivere? Comincia la ricerca di uno scopo, si affacciano alla nostra mente tante speranze.
Dietro a tanti e diversi desideri, al fondo di essi, ce n’è uno che li motiva tutti, che dà senso alla nostra facoltà stessa di “aspirare”: il desiderio di essere felici. Ma il concetto di felicità è uno dei più vaghi ed indeterminati che si affacciano all’orizzonte della nostra mente. Cosa significa essere felici? Per qualcuno significa semplicemente “godere”, andare alla ricerca del “piacere” ovunque si trovi. In questa prospettiva la vita buona sarebbe semplicemente la vita “piacevole”, la “dolce vita”. Søren Kierkegaard ha descritto una vita di questo genere attraverso l’immagine teatrale del Don Giovanni, il seduttore che riesce sempre nelle sue imprese libertine, e che tuttavia è costretto a compierne sempre di nuove, sempre di diverse, perché appena afferra l’oggetto del suo desiderio, esso gli muore tra le mani lasciandogli un vuoto ancora maggiore da riempire. In effetti, il piacere è quanto di più sfuggente ci sia e, quando è ricercato per se stesso, inevitabilmente scompare, lasciandoci un senso profondo di frustrazione che conduce al “male di vivere” e alla malattia mentale – come dimostra anche la psicologia clinica.
Il fatto è che l’oggetto del nostro desiderio non è il piacere, bensì ciò che procura piacere! Certamente vogliamo godere, ma di qualcosa. O meglio, vogliamo “qualcosa”, e – con esso – accogliamo il piacere che ciò comporta. Questo “qualcosa” che viene desiderato possiamo definirlo un “bene”. Ciò che si spera è qualcosa di desiderabile. Ma anche qualcosa di scarsamente desiderabile in sé, può essere considerato attraente in vista di un fine ulteriore. Ad esempio un lungo viaggio in treno può essere noioso in sé, ma può risultare assai desiderabile se mi conduce a riabbracciare una persona a cui voglio bene. Posso affrontare un’esperienza anche spiacevole (cavarmi un dente) o faticosa (alzarmi presto al mattino per studiare) o noiosa (ascoltare certi predicatori…), a patto che rientrino nel fine globale del mio vivere.
In effetti c’è qualcosa che non posso fare a meno di desiderare e di sperare, qualcosa che rappresenta il senso di ogni mio desiderio: voglio essere felice, cioè voglio realizzare in pieno la mia esistenza, sviluppare la mia personalità. E tutto ciò che desidero, tutto ciò che spero, lo desidero e lo spero perché penso (so o immagino) che possa contribuire alla mia vera felicità. E notate bene: anche chi trascina la sua vita “alla giornata” si comporta così perché pensa che quello è il modo di ottenere la felicità: ritiene di realizzare così la propria personalità. Agisce in modo misero, perché ha un misero concetto di sé!
I pensatori di tutti i tempi si sono interrogati su questo tema: la felicità è qualcosa di possibile, di reale, o è una farfalla variopinta che vola via non appena ci sembra di toccarla? Se è possibile, lo è su questa terra o è riservata a una vita ultraterrena? E, in ogni caso, in cosa consiste?
Nel parlare comune, nella chiacchiera, felicità e gioia vengono a significare uno stato generico di euforia, generalmente connesso ad una soddisfazione psico-fisica, un entusiasmo passeggero destinato ad essere distrutto, prima o poi, dai problemi, dal malessere, dalla noia. Evidentemente la beatitudine evangelica non è questo. La felicità a cui si riferisce è la gioia dell’ev-angelo, dell’annuncio festoso: quella a cui l’angelo Gabriele invita la Vergine: “Gioisci, piena di grazia: il Signore è con te!”; quella che esplode nel canto del Magnificat, che scaturisce costantemente dalle parole e dai gesti di Gesù, quella che Gesù stesso promette “piena” ai suoi discepoli nel cenacolo e che caratterizza in toto la diffusione del vangelo. Come ha notato magnificamente un grande biblista del secolo scorso: “Il cristianesimo è stato un’esplosione di gioia, ed è ancora oggi per ogni anima entusiasmo di vivere… Chi non trasalisce fino in fondo al suo essere, scosso da questa novità, non è cristiano” (L. Cerfaux). Qual è la ragione di questa gioia? La comunione con Dio in Gesù Cristo.
Perché tanta insistenza sul tema della beatitudine, della felicità, della gioia? Perché noi cristiani di vecchia data siamo spesso vittime della tentazione di ridurre la nostra fede all’accettazione dell’autorità di Gesù maestro-legislatore-giudice e all’esigenza di mettere in pratica i suoi “comandamenti”; il tutto in un clima piuttosto imbronciato e talvolta decisamente triste e deprimente. Un terribile filosofo miscredente della fine dell’Ottocento scrisse un giorno:
“Se la vostra fede vi rende beati, datevi da conoscere come beati! Se la lieta novella della vostra Bibbia vi stesse scritta in faccia, non avreste bisogno di imporre così rigidamente la fede” (F. Nietzsche, Umano, troppo umano).
Tante volte, noi cattolici ci preoccupiamo di studiare tante strategie per portare il Vangelo nel mondo di oggi… Una grande strategia è quella che indica s. Paolo: “Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini” (Fil 4, 4-s). Solo se gli uomini ci vedranno felici, si apriranno al nostro annuncio.
Grazie!!!
L’ha ribloggato su SrIlariaScarciglia.
…Come sempre. Bello e godurioso come sempre. Grazie di cuore Aldo! -Valerio P.-