Purtroppo quando parliamo di san Francesco si affolla nella nostra mente tutta una serie di immagini più o meno deviate, ideologicamente viziate, poeticamente adulterate che falsano la comprensione della sua (e quindi della nostra!) esperienza. Dobbiamo andare alle fonti più sicure per coglierla autenticamente; soprattutto alle più certe, che sono i suoi stessi scritti.
Ebbene, nel Testamento, con semplicità lapidaria, viene fissata tutta una complessa e sofferta evoluzione psicologica del santo in cui spiccano due momenti: “Il Signore diede a me di cominciare a fare penitenza” e “Il Signore mi diede dei fratelli”.
Il primo e fondamentale episodio, la svolta decisiva della vita di Francesco è testimoniata da lui stesso con queste parole:
“Il Signore diede a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero tra i peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo. E in seguito, stetti un poco e uscii dal secolo” (FF 110).
Sono poche righe, ma precisano il momento decisivo, la scelta determinante di un processo spirituale, che culmina in un rovesciamento di valori indicato, nella maniera più netta, con l’antitesi amaro-dolce e nel fatto che ha determinato questo rovesciamento, l’incontro con i lebbrosi e la misericordia usata ad essi.
Ciò vuol dire che il momento centrale della conversione di Francesco non è stato di tipo ecologistico o sentimentale, ma la comprensione della comune sofferenza umana dell’anima – la lebbra dell’anima – e del corpo. Vi è, dunque, come momento decisivo della conversione di Francesco d’Assisi il passaggio da una condizione umana ad un’altra, l’accettazione del proprio inserimento in una marginalità, l’ingresso fra gli esclusi, la cui caratteristica era, appunto, l’essere rifiutati da tutti per la loro condizione di orrore. Che da questa esperienza scaturisca anche dolcezza di anima e di corpo è una conseguenza, ma non è certo l’elemento decisivo della conversione.
Il secondo momento determinante per Francesco fu quello in cui cominciò ad avere dei frati. Ce lo dice egli stesso senza equivoci in uno dei passi centrali e determinati per la sua storia interiore, là dove nel Testamento ci mostra, in una visione unitaria, tutta la formazione della prima fraternità:
“E dopo che il Signore mi dette dei fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. E io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor papa me la confermò” (FF 116).
La libertà spontanea di comportamento che aveva caratterizzato l’azione di Francesco, solo e padrone della sua volontà, non poteva continuare dopo che il Signore gli aveva dato dei fratelli. C’era bisogno di una regola, una norma di vita evangelica fissata per rivelazione di Dio stesso e confermata dalla suprema autorità della Chiesa. In essa la forma della vita fraterna è segnata con queste parole:
[I frati] “si amino scambievolmente, come dice il Signore: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate scambievolmente come io ho amato voi». E mostrino con le opere l’amore che hanno fra di loro, come dice l’apostolo: «Non amiamo a parole né con la lingua, ma con le opere e in verità». (FF 37).
Nel raccontare la vita di questa prima fraternità, spesso i biografi cedono alla suggestione dell’idillio. Di tutti e di tutto restava il punto di riferimento e l’anima proprio e sempre Francesco, che, secondo la testimonianza concorde delle fonti, era felice come chi avesse trovato un tesoro e cantava in italiano e in francese, per mostrare anche esteriormente la sua letizia interiore. Pure la vita sua e dei suoi compagni non era facile: se c’era chi li ammirava, più numerosi ancora erano quanti li insultavano chiamandoli folli o beffandoli. Altri ancora rinfacciavano loro l’ipocrisia, accusandoli di aver rinunciato a tutto per vivere alle spalle degli altri. Il loro comportamento, tuttavia, faceva impressione. Racconta la Leggenda dei tre compagni:
“Si volevano vene a vicenda con affetto profondo, e l’uno serviva l’altro e lo nutriva, come una madre serve e nutre il proprio figlio unico e amato. Tanto ardeva in essi il fuoco della carità, che avrebbero volentieri consegnato il loro corpo alla morte non solo per amore di Cristo, ma anche per la salvezza dell’anima e dl corpo dei loro fratelli […]
Erano tanto fondati e radicati nell’unità e nella carità, che ciascuno riveriva l’altro come suo padre e signore. E chiunque, per il suo incarico di prelato o per doni di grazia, precedeva gli altri, appariva più basso e vile di tutti”. (FF 1448).
Ma se andiamo alle motivazioni profonde di tanto amore, di tanta gioia e di tanta efficacia nella fraternità delle origini, non troviamo altro che Gesù Cristo e questi crocifisso. Non è ideologia pauperistica, non è socialismo ante-litteram o teologia dell’ortoprassi ciò che conduce Francesco tra i lebbrosi, ma il Signore stesso e la sua misericordia che converte dai peccati. Non è il buon umore o l’indole socievole di una brigata di baldi giovani a costituire la ragion d’essere della fraternità francescana, ma l’appello del Cristo in croce, che chiede di riparare la sua casa, che dà i fratelli, che rivela la forma evangelica di vita dando la parola e il comandamento. Solo in questa prospettiva si comprende il vero senso della fraternità universale.
Tommaso da Celano, nella Vita Seconda, dopo aver parlato dell’amore di Francesco per le creature sensibili e insensibili (il fuoco, un uccellino, il falco, le api, il fagiano, la cicala…) afferma:
“La forza dell’amore aveva reso Francesco fratello di tutte le altre creature; non è quindi meraviglia se la carità di Cristo lo rendeva ancora più fratello di quanti sono insigniti dell’immagine del Creatore. Diceva infatti che niente è più importante della salvezza delle anime, e lo provava molto spesso con il fatto che l’Unigenito di Dio si è degnato di essere appeso alla croce per le anime. […] Non si riteneva amico di Cristo se non amava le anime che egli ha amato. […]. Ma al di sopra di ogni misura amava di un amore particolarmente intimo, con tutto l’affetto del cuore, i frati, come familiari di una fede speciale e uniti alla partecipazione all’eredità eterna” (FF 758).
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