1 Il Corpo del Signore
Sembra che proprio partendo dall’Eucaristia san Paolo abbia inteso la Chiesa come corpo di Cristo: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10, 17). L’assemblea è essa stessa eucaristizzata, diviene il corpo di Cristo, quando celebra l’Eucaristia. La teologia patristica accettava senza esitazione tutto il realismo del linguaggio paolino: dice Teodoro di Mopsuestia: «Quando siamo tutti nutriti dello stesso corpo di nostro Signore… diveniamo tutti il solo corpo di Cristo» La loro unanimità è impressionante: ascoltiamo Cirillo Alessandrino: «Per mezzo della sua carne, è evidente che tutti siamo una cosa sola sia tra noi che in Cristo ». Nel Medio Evo si pensava che non si «saprebbe trovare altra ragione per cui la Chiesa è chiamata il corpo di Cristo e lo è realmente, se non perché dandole il proprio corpo, Cristo la trasforma in se stesso, affinché essa divenga il suo corpo e tutti siano le sue membra» (così un testo attribuito a S. Alberto M.). Oggi ancora noi chiediamo: «Concedi a noi tuoi fedeli di essere sempre inseriti come membra vive del Cristo, poiché abbiamo comunicato al suo corpo e al suo sangue» (Orazione post-communio, V dom. di Quar.). Oppure, pregando con parole che sono di sant’Agostino e di san Leone Magno: «Concedi a noi… di trovare in questa comunione la nostra forza e la nostra gioia, affinché possiamo divenire ciò che abbiamo ricevuto» (Orazione post-communio, XXVII dom. T. O.).
2 L’Eucaristia, una comunione
Un pasto preso in comune è, per natura, creatore di vincoli fraterni; il banchetto eucaristico possiede questa virtù a un grado inaudito: «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo» (1 Cor 10, 17). Questo pane è infatti il corpo di Cristo nella potenza dello Spirito della risurrezione, di quello Spirito che incorpora il mondo a Cristo. Vediamo le cose nell’ordine.
L’ultima cena ha avuto una preparazione. Gesù aveva chiamato a sé dodici uomini «che stessero con lui» (Mc 3, 14). Egli mangiava con loro. Nella mentalità di quel tempo, ogni pasto consumato insieme, anche il più semplice, era un gesto umano solenne, un rito creatore di fratellanza. Quando il padre di famiglie ebreo benediceva il pane, lo spezzava, lo distribuiva, si celebrava una comunione: in virtù di questo pane carico di benedizione e condiviso, i commensali si trovavano legati in una comunanza di vita, con Dio e tra di loro. Questo simbolismo si ispira Paolo: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è comunione con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo, non è comunione con il corpo di Cristo?» (1Cor 10, 16). Proprio perché i commensali che siedono alla stessa tavola sono fratelli, Gesù si lamenta: «Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà» (Mc 14, 18).
Nessun’altra immagine sembrava altrettanto appropriata per esprimere il dono messianico: «Beato chi mangerà il pane nel Regno di Dio!», esclama un fariseo; e Gesù gli risponde con la parabola degli invitati alla grande cena (Lc 14, 15-24). Per uomini infiammati dalla speranza del Regno, ogni pasto consumato con Gesù assumeva un senso messianico. Già si rinforzava in loro la certezza di sedere un giorno nel Regno accanto a lui e si accendeva il desiderio dei posti migliori alla sua destra e alla sua sinistra (Mc 10, 37).
Grande era perciò lo scandalo degli scribi e dei farisei quando Gesù «mangiava con i peccatori» (Mc 2, 16): egli apriva il Regno agli esclusi della comunità religiosa ebraica; annunciava un’era messianica quale noi la conosciamo mediante l’Eucaristia: una cena per la salvezza dei peccatori (cfr. Mt 26,28).
La moltiplicazione dei pani costituisce una tappa importante nella manifestazione di Gesù. Allora appare chiaramente agli occhi la sua messianicità già intuita: «Stavano per venire a prenderlo per farlo re» (Gv 6, 15). Il Regno di Dio si mostra nella sua immagine creata da Gesù, quella di un pasto miracoloso.
Gesù è il primo commensale alla tavola del Regno. Il Regno che è un banchetto si costituisce intorno a Gesù. E la presenza di Cristo è presenza di comunione, è la cena della Chiesa. Gesù fa mettere a tavola i suoi e passa a servirli (cfr. Lc 12, 37), nutrendoli della propria sostanza. Il quel giorno, egli è in loro ed essi sono in lui (cfr. Gv 14, 20).
3 Una comunione sacrificale
I sacrifici di una volta terminavano per lo più con un pasto. Attraverso l’immolazione che la sottrae al mondo profano, attraverso il gesto d’offerta, attraverso l’altare su cui è posta e il fuoco di Dio che penetra in essa, la vittima era sacri-ficata, divinamente impregnata. Si riteneva che il congiungimento del celeste e del terrestre si realizzasse in quel punto del mondo che è questa vittima. Nello stesso tempo veniva preparato un cibo. Grazie al pasto di comunione, il cerchio del sacro tracciato dal sacrificio poteva allargarsi, includendo coloro che ricevevano la comunione nella stessa consacrazione: «Guardate Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime scarificali non sono forse in comunione con l’altare (= con Dio)?». E quelli che offrono sacrifici agli dèi pagani – che sono demoni, agli occhi dell’apostolo – e si nutrono delle carni immolate, non entrano forse in comunione con i demoni (cfr. 1Cor 10, 18-20)?
In Cristo il congiungimento di Dio e del mondo diventa realtà; egli è «l’Agnello di Dio»; è consacrato fin dalle sue origini (Gv 10, 36) dalla presenza dello Spirito (Gv 1, 29-33) e consacrato in pienezza nella morte e nella gloria (Gv 17, 19), nello Spirito della risurrezione. Tutto è pronto per il banchetto di comunione. Mangiando l’Agnello, gli uomini entrano nell’alleanza pasquale, divenendo con lui una stessa «oblazione santificata dallo Spirito Santo» (cfr. Rm 15, 16). Essi incontrano Dio nel punto preciso in cui il mondo fa tutt’uno con Dio: nel Cristo e nella sua morte.
In Cristo il sacrificio e la cena formano una liturgia indivisa: nella sua morte alla carne che è chiusa su se stessa, nella sua risurrezione nello Spirito Santo che è comunione (2Cor 13,13), egli è a un tempo vittima e cibo. Egli è la nostra Pasqua (1Cor 5,7), il nostro sacrificio e la nostra cena. L’Eucaristia è il sacramento della Pasqua di Cristo e della comunione pasquale: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui » (Gv 6, 56).
La comunione con Cristo crea quella di tutti fra di loro. Il suo sangue è un sangue d’alleanza (Mc 14, 24), simile a quello di cui fu asperso il popolo al Sinai (Es 12, 4-8), che non solo santificava, ma cementava l’unità. «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? » (1 Cor 10, 16). Questa formula è piena di senso, parla di partecipazione al corpo e al sangue di Cristo, ma anche di una comunione di tutti fra di loro nella comune partecipazione a Cristo, cosicché l’Apostolo può concludere: «Noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo» (1Cor 10, 17).
«Il pane spirituale», infatti, spiritualizza quelli che lo mangiano. Lo Spirito che è l’espressione dell’essere di Dio e il signore del mistero pasquale impone alla Chiesa eucaristica la legge del mistero pasquale che è quella di Dio: una legge di amore e di comunicazione di sé. L’Eucaristia apporta all’uomo peccatore, chiuso su se stesso, la grazia che lo salva aprendolo agli altri; consente di essere in una maniera nuova, pasquale, di essere simile a Cristo che esiste in stato di donazione di sé e di comunione. La grazia eucaristica è un bene che si possiede condividendolo; è di carattere trinitario e instaura nel mondo il regime della vita divina. Noi sappiamo che dalla conversazione del Padre e del Figlio, da quel dialogo dell’io e del tu, il mio e il tuo sono banditi, poiché il Padre e il Figlio conversano nella comunione dello Spirito Santo. I commensali eucaristici sono santificati divenendo santi ciascuno per gli altri. Nella società umana peccatrice, riunita nell’opposizione degli uni agli altri, l’Eucaristia crea la comunione dei santi. Il corpo di Cristo è l’antidoto del peccato originale.
Fatte le debite proporzioni, i fedeli diventano fra di loro, secondo i diversi doni gerarchici e carismatici, ciò che Cristo è per loro: «spiriti datori di vita», esseri in stato di donazione di sé, d’irradiazione di vita. Solo il Risorto è il capo del corpo intero, la sorgente originale; ma come in ogni cosa Dio è creatore di cause, così Cristo dà al suo fedele di essere anch’egli una sorgente per gli altri, poiché «come è lui, così siamo anche noi» (1Gv 4,17). Negare questo effetto eucaristico significherebbe rifiutare alla Chiesa di essere il corpo di Cristo, quella che partecipa al mistero di Cristo e lo rende presente al mondo. L’Eucaristia ha il potere di cambiare il cristiano «in ciò che riceve», in pane di vita, in puro cibo di salvezza per gli altri (Origene). Grazie alla comunione con Cristo, una reciproca donazione di vita circola tra quanti ricevono la comunione: in ciascuno di loro, la Chiesa è a un tempo fraterna e materna.
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