Tante difficoltà nella vita spirituale, tanti turbamenti della nostra anima sono generati da un’idea incompleta del peccato, come se questo fosse “solamente” un disordine morale, oppure una colpa che ci può essere imputata nel giudizio, o addirittura una mancanza al punto d’onore. Dobbiamo chiedere al Signore che sia Lui stesso a rivelarci il senso vero del peccato.
Non si giunge a comprendere la portata del peccato e ad acquistarne un esatta cognizione in poco tempo. Eppure è cosa importantissima perché il nostro tempo ha perso il senso della sua gravità.
In molti peccatori che pure riconoscono le loro cattive abitudini, si riscontra un indefinito atteggiamento interiore che può tradursi in questi termini: “Se avessi conservato l’innocenza, mi sforzerei di conservarla anche in seguito, ma dal momento che l’ho persa, perché mi debbo sforzare?”
Una tale espressione è possibile solo se si ha del peccato un concetto sballato, terra-terra. Anzi, sotto-terra: un concetto suggerito dal demonio. Infatti, ragionare in quei termini equivale a dire: “Se non avessi flagellato Gesù Cristo, mi potrei anche impegnare a non flagellarlo mai; ma dato che l’ho colpito una volta, continuerò a colpirlo”.
La rivelazione piena del senso del peccato che il Padre ci ha offerto è suo Figlio Gesù Cristo sofferente.
Contempliamolo ed osserviamo l’amore ardente col quale Cristo ci ama, la sua sublime santità, senza ombra di macchia, e su questa santità il segno del dolore: la ferita della lancia, la corona di spine, la croce… Anche se non appare da dove provengono queste ferite, noi ne conosciamo la causa: i nostri peccati
“Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci da salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza, né vi fosse inganno sulla sua bocca”. Is 53, 2-9
I nostri peccati sono la causa dei dolori di Gesù, della sua croce. Egli prese su di sé i nostri peccati ben sapendo che erano nostri, di ognuno di noi. Ciascuno può dunque dire: se avessi peccato di meno, Gesù avrebbe sofferto di meno.
I peccati che ancora commettiamo sono ulteriori ingratitudini che continuano a pesare sul suo Cuore: “Crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia” Ebr 6, 6.
Chi considera il peccato sotto questo aspetto non ha timore di chiedere al Signore la morte, piuttosto che commettere il peccato; anzi, sente l’aspirazione ad offrire la propria vita al Signore per evitare anche un solo peccato mortale di una qualsiasi anima.
Durante la sua agonia Gesù ebbe a dire: “L’anima mia è triste fino alla morte” (Mc 14, 34; Mt 26,38)
E questa tristezza mortale che si abbatté sull’anima del Cristo fu a causa dei nostri peccati, futuri ma previsti. Tuttavia senza dubbio Gesù fin da allora ha provato qualche consolazione in previsione della nostra riparazione: “Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo” (Lc 22, 43).
“E così anche ora in modo mirabile, ma vero, noi possiamo e dobbiamo consolare quel Cuore Sacratissimo che viene continuamente ferito dai peccati degli uomini ingrati” (PIO XI, Enciclica Miserentissimus Redemptor, n. 23).
Cristo ora è risorto, è glorioso, non soffre fisicamente. Tuttavia è in grado di sentire compassione nell’anima sua. Al Cristo risorto si riferisce la Lettera agli Ebrei quando dice: Non abbiamo un Sommo Sacerdote che non possa compatire le nostre infermità (4, 15). E il motivo di questa compassione è l’amore infinito che nutre per noi: vedendoci preferire il nostro ventre al suo Cuore, vendendoci correre verso il baratro della dannazione, non resta indifferente alla nostra sorte. Certo questo non toglie nulla alla sua perfetta beatitudine, e per noi resta un mistero insondabile immagi-nare come Egli possa essere perfettamente felice eppure dispiacersi del nostro peccato, ma le due cose vanno affermate insieme.
Forse tutto questo si comprende meglio se consideriamo che il Corpo mistico di Cristo è la sua Chiesa. I nostri peccati sono un cattivo esempio, sono causa del mancato riconoscimento di Gesù nella sua Chiesa e impediscono che la vera Chiesa appaia in tutta la santità in cui Gesù l’ha costituita.
Ma vi è di più: i nostri peccati, anche quelli più nascosti, causano una vera ferita al Corpo mistico. I miei peccati non distruggono solamente la grazia in me, ma minacciano anche quella di altre anime, perché se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme (1 Cor 12, 26). E quindi anche i peccati degli altri non possono lasciarci indifferenti: sono ferite al Corpo mistico e noi, quali membra vive, non possiamo non risentirne.
C’era un giovane affetto da una grave forma di tubercolosi. Assieme al figlio, anche la madre deperiva giorno per giorno, pur non presentando alcuna alterazione organica di rilievo. Un giorno il medico volle visitarla più a fondo e le chiese: “Signora, ma cosa vi fa male?”. E la donna: “Mi fanno male il polmoni di mio figlio”.
A Gesù oggi fanno male le mie ferite. E a me fanno male le ferite di Gesù? Mi fanno male le ferite dei miei fratelli che sono Corpo di Gesù come me?
Gesù è il Capo di questo Corpo. Per questo ci ha salvati: perché, essendosi unito a noi, i no-stri peccati sono diventati in un certo senso i suoi, e la sua riparazione è diventata la nostra (“meraviglioso scambio…!”). Ora, se noi siamo strettamente uniti a Cristo siamo salvi. Ma siamo anche strettamente uniti ad altre persone: le persone che amiamo, che ci sono più vicine, che sono “affidate” a noi a qualche titolo (familiari, parrocchiani, alunni, colleghi, condomini…), persone che possono con il nostro contributo accrescere il Corpo mistico di Cristo. Ognuno di noi potrebbe dire di loro “le mie anime”.
Di conseguenza, i peccati di queste anime sono veramente nostri. Non nel senso che siano nostri peccati personali, causa di dannazione o castigo per noi, ma nostri perché ci riguardano in modo speciale. Così se noi soffriamo per essi e ci uniamo alla riparazione di Cristo per loro e per noi, possiamo veramente soddisfare per essi. Nel considerare questi peccati potremo con più verità dire: “Signore, perdonaci”, come, sempre al plurale, ci fa pregare la Chiesa. Potremmo riparare con le nostre penitenze e sacrifici questi peccati delle “mie anime”, peccati che sono vere ferite al Cuore di Gesù.
Un mezzo per incarnare tutto ciò nella nostra vita concreta è la pratica dell’Ora santa: passando un ora in preghiera si implora la divina misericordia; si consola Gesù dell’abbandono in cui di lasciato nel Getsemani, mentre si cerca di compenetrarsi nei sentimenti del suo cuore, di portare con lui, per quel poco che possiamo, i peccati dell’umanità.
Ma attenzione: la consolazione che noi possiamo dare a Gesù è come una goccia nel mare della consolazione che Gesù dà a noi. Noi possiamo assaggiare una goccia del calice amaro che lui ha bevuto, ma in cambio riceviamo fiumi di latte e miele. Noi possiamo cominciare a patire con Cristo, ma lui che ha patito tutto, non desidera altro che gioire con noi, che accoglierci in un abbraccio beatificante, che ci renda partecipi della sua vittoria sul male e sulla morte, della sua vita di risorto.
Grazie mille! srI