29. domenica “per Annum” – B
Oggi alcuni laici rivolgono una richiesta a Gesù tramite la Fraternità Francescana di Betania: chiedono di essere ammessi come novizi o come professi tra gli “oblati”. Di fronte a questa richiesta la nostra tentazione è triplice:
1. potremmo anche pensare che il loro cammino sia sì impegnativo – giacché comporta degli obblighi particolari di preghiera, di frequenza comunitaria, di verifica – ma comunque caratterizzato da latte e miele, vini dolci e cibi succulenti;
2. e potremmo vederli come una élite, come cristiani di stampo superiore rispetto alla massa, come persone che ricevono – per così dire – delle stellette da indossare sull’abito feriale e diventano cristiani “super”;
3. e potremmo anche pensare che si tratta di gente che, siccome fa qualcosa per il Signore (preghiere, elemosine, penitenze…) poi acquista dei diritti davanti a Lui e può pretendere una ricompensa.
Provvidenzialmente la parola di Dio ci viene incontro in questa liturgia nella quale il concetto di oblazione ritorna esplicitamente nella prima lettura e nel vangelo, ed implicitamente nella seconda lettura.
Nella prima lettura Isaia perla del servo sofferente, che compie la sua opera quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione. E nel Vangelo Gesù stesso dice di essere venuto per dare la propria vita in riscatto per molti. Ecco, essere oblati significa associarsi intimamente all’offerta, al dono di sé che Cristo fa al Padre a vantaggio dei fratelli. Significa – molto francescanamente – diventare altri cristi, che proseguono la sua opera nel mondo. Altro che stellette! Altro che latte e miele!
In modo particolare ci aiuta la pagina del Vangelo che abbiamo ascoltato. In queste domeniche Mc ci sta narrando il cammino di Gesù verso Gerusalemme, verso la croce; lungo questo cammino Gesù ripete il suo invito a seguirlo, invito rivolto ai discepoli di tutti i tempi, quindi a ciascuno di noi. Ma si scontra con l’incomprensione dei discepoli, che Mc ci presenta come specchio della nostra incomprensione, che smaschera la nostra durezza di cuore e di mente.
Domenica scorsa abbiamo ascoltato Gesù che, ai discepoli che hanno abbandonato tutto per seguirlo, prometteva il centuplo su questa terra e la vita eterna. Giacomo e Giovanni colgono al volo l’occasione: anch’essi hanno lasciato tutto per seguire Gesù; vogliono perciò assicurarsi un posto di rilievo nel suo regno messianico, nella sua gloria.
1. Quale gloria aspettano? La gloria terrena, politica e militare: non hanno capito niente di quello che Gesù va a fare a Gerusalemme: pensano a latte e miele, vini dolci e cibi succulenti.
2. Cosa chiedono? Di sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, cioè di essere i primi dignitari del regno: vogliono le stellette!
3. Come lo chiedono? Con arroganza, come una rivendicazione: “Maestro, vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. Abbiamo lasciato tutto per seguirti, abbiamo diritto a un posto.
Gesù afferma chiaramente: Voi non sapete ciò che domandate. Non avete ancora capito chi sono io e che cosa vado a fare a Gerusalemme.
Chi starà alla sua destra e alla sua sinistra quando il viaggio di Gesù sarà concluso? Due ladroni crocifissi! Certo, se avessero capito ciò che domandavano, Giacomo e Giovanni si sarebbero ben guardati dal farlo!
Ora, se loro erano – in un certo senso – scusabili (perché Gesù non era ancora stato crocifisso, ed essi non avevano ancora ricevuto lo Spirito Santo) noi non siamo scusabili. Se pretendiamo da Cristo crocifisso il benessere, il successo e il potere terreno, ci dimostriamo veramente stolti.
Ma Gesù non si arrabbia, e con molta pazienza li invita a condividere anzitutto la realtà concreta della sua obbedienza al Padre: “Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. E i discepoli, senza capire, rispondono sì. Forse pensano che si tratti di celebrare qualche rito particolare: bere alla stessa coppa (come si faceva nella cena ebraica), immergersi insieme nell’acqua (come faceva Giovanni il Battista).
Certo a noi la risposta di Gesù fa venire alla mente due sacramenti: il Battesimo e l’Eucaristia (il calice). Ma cadremmo nello stesso errore dei discepoli se pensassimo che basta ripetere materialmente i riti di questi sacramenti per essere salvi.
Bere il calice di Gesù, fare veramente Eucaristia, significa condividere la sua passione, lasciare che il nostro sangue sia trasformato nel Suo sangue divino, e poi sia versato per la salvezza del mondo.
Ricevere il Battesimo di Gesù significa immergersi nella sua morte, morire a noi stessi (lasciarsi espropriare dalla vita egoistica, segnata dal peccato) per risorgere a vita nuova, in modo che, come dice s. Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”.
La richiesta di Giacomo e Giovanni era detta da sete di potere, e la reazione degli altri dieci pure. Gesù capovolge le aspettative degli uomini e afferma che chi vuol essere il primo deve essere come Lui: l’ultimo di tutti, il servo di tutti, che dà la sua vita per amore nostro.
E allora comprendiamo il senso della nostra oblazione: si tratta di essere configurati al’oblazione di Cristo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.
1. Cari amici, non avrete latte e miele, ma il pane duro della Parola, che dà nutrimento e forza, avrete il pane azzimo dell’Eucaristia, che nella sua durezza e aridità “contiene in sé ogni dolcezza”; avrete l’acqua viva dello Spirito: chi ne beve cancella in sé ogni altra sete.
2. Non avrete alcun tipo di potere, se non quello di umiliarvi sotto il peso della croce quotidiana, di mettervi all’ultimo posto tra i poveri e di godere così la compagnia di Cristo.
3. Se sarete fedeli fino in fondo e osserverete tutto ciò che oggi promettete, alla fine avrete soltanto il diritto di dire “Siamo servi inutili, abbiamo fatto quel che dovevamo fare”, ma così sarete pienamente configurati al Servo di tutti, Cristo Gesù.
Oblazione
ottobre 20, 2012 di Aldo Vendemiati
E’ dura …essere fedeli sino in fondo !!!! un abbraccio