La festa di oggi sta a ricordarci la meta comune di tutti gli stati di vita cristiana, che è la santità, la perfezione della carità per la fruizione del sommo Bene, per la beatitudine.
È bene ricordarlo perché riemerge continuamente nei discorsi e in certa prassi pastorale, la tentazione di accontentarsi di una vita di compromesso tra peccato e vangelo, che certamente non rende giustizia all’azione del Padre per Cristo nello Spirito santo.
La mediocrità e le difficoltà sono esperienza di molti. Di qui la tentazione peggiore alla quale molti cristiani, anche pastori, sembrano oggi cedere: si snatura il cristianesimo, appiattendolo. Per evitare di essere “disumani”, si aggirano le difficoltà, diminuendo e attenuando le esigenze del vangelo. Alla vocazione alla santità si sostituisce un ideale piuttosto banale di onestà. È in questo modo che tra i Cristiani dei paesi occidentali si è instaurata una specie di spiritualità middle class, caratterizzata fondamentalmente da un attenuato senso del peccato e della grazia e da una mediocrità, nel senso di una misura troppo umana, che rifiuta violentemente ogni dimensione eroica dell’esistenza cristiana. Questa è oggi una delle vie che portano con maggiore sicurezza alla perdita della fede e dell’ateismo.
La festa di oggi ci costringe a riprendere sul serio la santità. Sì, ma cosa significa? È una parola che ripetiamo spesso, è una realtà sulla quale ognuno ha le sue idee, tante e spesso confuse. La liturgia proclama Cristo come “solo santo”; festeggia i santi. Parliamo pure dei santi vangeli, della settimana santa; e siamo chiamati a diventare santi… La santità appare quindi una realtà complessa che concerne il mistero di Dio, ma anche il culto e il comportamento; implica le nozioni di sacro e di puro, ma le supera. Sembra riservata a Dio, inaccessibile, ma è costantemente attribuita a creature.
La liturgia acclama il Dio tre volte santo. Lasciamoci aiutare dalla liturgia: se ascoltiamo, ad esempio, un Sanctus gregoriano, la santità ci appare come “misteriosa e solenne bontà”, se ascoltiamo quello della Missa Papae Marcelli, pensiamo che significhi “gloriosa bellezza trascendente”; se ascoltiamo quello del Requiem di Mozart, pensiamo che significhi “maestà, potenza e giustizia assoluta”… Ma se non abbiamo mai ascoltato nulla del genere e siamo fermi a certe espressioni del “pop” ecclesiastico contemporaneo, potremmo pensare che “Santo” significhi banalmente “allegro e spensierato, un po’ caciarone”.
Abbiamo bisogno di recuperare i segni della santità, per capire cosa significhi “Santo”. Infondo, i paramenti sacri con cui celebriamo la Messa sono un segno della santità dell’azione che compiamo, l’abito religioso che portano i consacrati è segno della santità a cui si votano.
La chiesa, il tempio di Dio, “è un luogo santo” – come proclamano le Scritture e la liturgia – è cioè un luogo dal quale imparare questa misteriosa e solenne dolcezza, questa gloriosa bellezza trascendente, questa maestà, potenza e giustizia assolute, questa bontà senza ombra né macchia… E sono queste le esperienze che facciamo – che so – all’abbazia trappista delle Tre Fontane o a Santa Maria sopra Minerva o nella Chiesa del Gesù… Ma che ne è di questo in un edificio – come tante parrocchie recenti – che è chiesa, ma potrebbe essere indifferentemente centro commerciale, capannone industriale o palazzetto dello sport?
La parola semitica qôdeš, “cosa santa”, “santità”, deriva da una radice che significa “tagliare, separare”, orienta verso un’idea di separazione dal profano. Le cose sante sono quelle “diverse da quelle comuni”. Dio è il santo, perché è totalmente altro rispetto a tutte le creature, perché è perfezione totale di unità, verità, bontà e bellezza. Tuttavia egli comunica la sua santità alle persone, ai luoghi e agli oggetti che rende “sacri”. La parola sacra, il luogo santo, la musica sacra, hanno il potere di aprire il cuore degli uomini affinché essi ricevano lo Spirito Santo che è la santità stessa di Dio effusa nei cuori.
La santità è essenzialmente partecipazione. Ma ha – per così dire – un duplice movimento: nel suo momento negativo è “qôdeš”, separazione dal mondo e dalla sua mentalità; nel suo momento positivo è “comunicazione” alla vita di Dio-Amore.
1. La mentalità del mondo si chiama moda, cultura dominante, banalità. Il cristiano deve (e quindi può) essere “alternativo”: la rinuncia a questa prospettiva, l’appiattimento sul mondo è “profanazione”. Giovanni chiama tutto ciò che è nel mondo con tre brevi espressioni: concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita (1 Gv 2, 16). La concupiscenza della carne è la brama di godere, la concupiscenza degli occhi è la brama di avere, la superbia della vita è la brama di potere, l’indipendenza da Dio, fondata sulla presuntuosa autosufficienza dell’uomo ricco e sazio. Si può essere santi solo nella misura in cui ci si “separa” da ciò e si pongono dei segni concreti della propria diversità.
2. Ma questo è solo il momento negativo. In positivo la santità è comunione con Dio-Amore.
L’apostolo Pietro dice che la potenza di Dio Padre, in Cristo ci ha fatto dono di ogni bene perché diventassimo “partecipi della natura divina” (cfr. 2 Pt 1, 1-11). La santità è partecipazione alla natura divina, il che implica il primato dell’azione di Dio: è lui che chiama, è lui che dona ogni cosa necessaria. Questa partecipazione non poteva realizzarsi a causa di un doppio muro di separazione tra Dio e gli uomini: la differenza ontologica (assoluta) e la differenza morale (il peccato). L’evento Cristo opera la salvezza come abbattimento di questi muri. La vita di Dio si comunica oramai agli eletti. E questo fa conoscere il mistero della vocazione umana.
La partecipazione alla santità divina è l’opera della grazia: ricostruisce le nostre persone, ci chiama a un comportamento rinnovato ristrutturando l’ordine dei valori, riordinando la libertà a perseguirli, dando la capacità di agire in modo santo. È dunque un evento dialogico in cui l’azione di Dio suscita la risposta umana. Dio si comunica a noi e noi siamo totalmente coinvolti in questa relazione.
L’esistenza cristiana è sinteticamente espressa in 1 Gv 5, 20: “Noi siamo nel vero Dio e nel suo Figlio Gesù Cristo”. La vita cristiana è vita teologale, divina, perciò santa. La lettera agli Efesini dice che Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi a immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli in Cristo Gesù (Ef 1, 3–6).
Il luogo in cui questo progetto si realizza è la celebrazione sacramentale dell’iniziazione cristiana. Anzitutto l’evento fondamentale che è il battesimo: “rinascita dall’acqua e dallo Spirito” (Gv 3, 3), “lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo” (Tt 3, 5). Ma l’evento culminante, che diventa fonte di vita nuova, è l’eucaristia, in cui si realizza la piena “comunione” di vita con Cristo Gesù: “Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. La mia carne infatti è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui. Come mi ha mandato il Padre, che è il vivente e io vivo per il Padre, così colui che si ciba di me, anch’egli vivrà per me” (Gv 6, 54-57). Qui la metafora della vite e dei tralci acquista realismo sacramentale: non c’è distinzione reale fra tralcio e vite, come non c’è tra corpo e membra: una sola vita, una stessa linfa, un solo frutto, che è della vite nel tralcio e non senza il tralcio (cfr. Gv 15, 4-5). E comunque tutti i sacramenti sono segni e strumenti di questa vita nuova, dono di Dio in Cristo per lo Spirito che opera in noi.
La vita teologale, vita nuova, è eterna perché Dio, il vivente, è l’eterno, e noi entriamo in relazione vivente di comunione con lui – ossia lo “conosciamo”: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3).
La vita eterna è dunque una relazione di conoscenza o, in altri termini, di amore. Eppure questa vita eterna che già abbiamo ricevuto, che già viviamo, non toglie ancora i nostri limiti spazio-termporali, non togli la nostra fragilità fisica, la sofferenza, la morte: non ancora! È in stato “germinale”, “aurorale”, è vita “nascosta con Cristo in Dio” (Col 3, 3), e insieme a Cristo deve passare per lo svuotamento di sé, la croce e la sepoltura, per risplendere con lui nella gloria della parusia: “Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, anche voi sarete manifestati con lui nella gloria” (Col 3, 4).
In questo spazio, dunque, si innesta la nostra collaborazione: dobbiamo guardarci bene dal “profanare” la santità che Dio ci dona, dobbiamo costruire responsabilmente in noi stessi ed intorno a noi, una santità che sconfigge il mondo.
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